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Così la geopolitica culturale aiuta a scrivere il futuro

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

La conoscenza, affermava il matematico Henri Poincarè, è insieme “theoria”, ovvero racconto, e intuizione, una dote che supera la Ragione e la ispira, rinnovandola. Noi, in effetti, quando parliamo di Geopolitica o di Strategia Globale, siamo abituati a proiettare un modello, un paradigma teorico, sulla realtà, che è peraltro estremamente complessa.

Ma, lo sappiamo bene anche dalla nostra esperienza giornaliera, è l’intuizione quella che conta per decidere, dopo la razionale elencazione dei pro e dei contro.

Ecco, anche nell’analisi strategica, per non parlare di quella economica, osserviamo fenomeni che nascono dall’intuizione dei popoli e delle loro classi dirigenti, non certo da una sommatoria finita di osservazioni empiriche e razionali.

I concetti politici non vengono “testati”, vengono sempre e comunque utilizzati come miti, come slogan, che nella lingua antica dei Britanni voleva dire “grido di guerra”, come, lo avrebbe detto Freud, “oggetti di affezione”.

Anche Paul Karl Feyerabend notava che, nella scienza “normale”, quella che il suo maestro, poi rinnegato, Karl Popper, riteneva poco interessante, tutto funziona per intuizioni progressive, ovvero per osservazioni che si prendono per buone, sulla base del concetto, che Feyerabend aveva preso da una vecchia canzone di Cole Porter, che “anything goes”, va bene tutto, basta che le nostre intuizioni siano confermate per un tempo accettabile.

Dal punto di vista del pensiero strategico, queste osservazioni sono rivoluzionarie. Noi non studiamo le analisi delle masse o i loro “giudizi”, nel senso kantiano del termine, ma le loro immagini, le proiezioni dei loro istinti, le pulsioni che stanno al fondo delle loro culture e dei loro interessi, insomma, per dirla con Pareto, i “residui” delle loro visioni del mondo.

Anche Noam Avram Chomsky ci serve per valutare questa rivoluzione nello studio della Strategia Globale, una terminologia che mi piace molto, visto che mi ricorda l’omonima rivista creata dal Generale Cappuzzo e da alcuni altri amici, per svecchiare la cultura politologica e internazionalistica italiana.

Chomsky afferma, in un suo recente articolo, che: “la parola ormai è stata superata, in tutto il mondo, dall’immagine, che ha sempre un forte impatto mitico, affettivo, allusivo, legato all’azione”. Ecco: la divisione delle culture e la loro interazione globale è probleme di immagini, di miti, di sistemi che inducono all’azione, non riguarda la separazione interattiva tra Teorie Razionali o tra modelli politici razionali e, sempre per dirla con Popper, “falsificabili”.

Si spiega così la commozione dei moscoviti quando Vladimir Vladimirovic Putin ha parlato durante la sfilata dei soldati, nella divisa voluta da Stalin, che commemoravano la vittoria dell’URSS nella “Grande Guerra Patriottica” contro la Germania hitleriana.

Possiamo così capire la passione dei tassisti di Pechino per Mao Zedong, utilizzato come amuleto al posto in cui i loro colleghi occidentali mettono più pratici deodoranti solidi.

Le masse si muovono con miti e segnali semanticamente rilevanti che sono non irrazionali, ma pre- e postrazionali, e si spiega così la raffinata tecnologia che alcune aziende di Pubbliche Relazioni nordamericane hanno utilizzato per “vendere”, come fosse un pannolino o una automobile, le guerre in Iraq o le operazioni alleate, più recentemente, nella Libia di Muammar al Minyar El Gheddafi.

Viene qui in mente l’analisi, ben più complessa di quanto oggi non si pensi, di Samuel Huntington, nel 1993, alla fine del ciclo militare della “guerra fredda”, quando parlò, in una serie di articoli su “Foreign Affairs”, del clash of civilizations, dello “scontro di civiltà”.

Il pensiero strategico anglosassone, ritengo giustamente, parla in termini di civilizzazioni, che non sono la “Zivilisation” di Max Weber, troppo materialistica ed economicista, ma vere e proprie civiltà nel senso pieno del termine, Civiltà che hanno un ciclo, un loro sorgere, un loro splendere nella maturità e poi, lentamente ma inesorabilmente, muoiono.

Gli Aztechi non sono stati sterminati dagli spagnoli casualmente, erano già in decadenza, e il loro indovino reale preconizzò l’arrivo del Colibrì Azzurro, l’uccello della Trasformazione, pochi giorni prima dell’arrivo delle navi spagnole di Cortez.

Civilizzazioni e non Stati delimitati, ci ricordava Huntington nei suoi articoli del 1993, che rimangono dopo la morte degli Stati visibili. Dentro la Yugoslavia di Josip Broz-Tito, c’erano i Limes delle civilizzazini islamiche, che non si scioglievano nel resto delle krajne o deigli Stati federali del progetto titoista, e i limiti invisibili di Venezia, anche nella Croazia nella quale Tito era nato, nonchè i limes del grande mondo slavo, che pure aveva digerito l’abbandono da parte di Tito della Grande Madre Russia sostituendo il mito panslavo con quello del socialismo autogestionario, mentre l’URSS cadeva nelle spire della crisi economica e sociale che la travolgerà.

Quindi, Civilizzazioni che oggi hanno una diversa conformazione rispetto anche al mondo che assistette alla fine della Guerra Fredda: abbiamo, diversamente da quello che oggi si dice con le cartine degli Stati alla mano, una grande civilizzazione islamista, “moderata” o jihadista, che è più piccola dell’Islam globale, dato che le vecchie Repubbliche islamiche dell’URSS partecipano al progetto Eurasia impostato da Mosca che, come accadeva ai tempi di Lenin e di Trotzky, pensa in termini geopolitici e di civilizzazioni, e poco si cura degli Stati così come si trovano. Quindi abbiamo, ad Est, un grande Progetto Eurasia, gestito dalla Russia postsovietica, che intende riprendersi la Slavia dell’Europa Orientale, anche il mondo slavo ortodosso dei Balcani. Putin ha regalato, ad un distratto Papa Francesco, la copia, magnifica, dell’icona sacra della Madonna di Mosca, quella che l’ex-seminarista georgiano Stalin fece volteggiare nel cielo della Capitale russa nel momento più tragico delll’assedio nazista. Ecco: il vecchio capo del KGB a Dresda, ora capo della nuova-vecchia Russia, diceva al Papa Romano, grazie all’Icona Sacra, questo: “Io e Lei siamo due parti inscindibili della Civiltà che nasce dalle Tre Rome, e Mosca è la Terza, uniamoci contro i nostri nemici comuni: il capitalismo sfrenato del protestantesimo americano, l’Islam sunnita in armi, la grande decadenza della nostra Civiltà comune”. Questo è il miracolo che Putin chiede oggi alla Madonna del Monastero di Kazan.

E ad Est c’è il progetto, in parte convergente con quello Eurasiatico, della Cina Imperiale e Confuciana, che arriverà, soprattutto pacificamente, a egemonizzare tutto il sud-est asiatico, fino ai confini indiani, che saranno ridisegnati a favore di Pechino, che vuole i Monti Sacri del Pamir, da dove sgorgano i suoi fiumi principali, e si sa quanto l’acqua sia essenziale nel mito taoista e, quindi, confuciano. Wittfogel, giustamente, analizzò il ruolo dell’Imparatore Cinese in funzione della regolazione delle acque in una società quasi unicamente agricola.

Siamo, nel Mediterraneo, al sorgere di una società insieme più frazionata e più unita. Il Maghreb, lo abbiamo visto con la lunga guerra intestina libica, è un mix di civiltà e popoli che non è detto debbano stare uniti per forza. Abbiamo infatti già a che fare con un nazionalismo Tamazigh, berbero, che unisce le altre quattro tribù primarie dell’area, divise tra vari Stati.

E c’è da immaginare come il fondo berbero, che gli psicologi sociali del mondo arabo identificano con la tradizione guerriera e dei predoni arabi, e infatti fu un berbero, Jabal Tariq, ad arrivare a Gibilterra e da lì nell’Al Andalus, che sia Osama Bin Laden che oggi Al Baghdadi, il capo dell’ISIS jihadista, reclamano come wafd, come prorpetà dell’Islam come tale. C’è ancora la Roma antica di Leptis Magna, in Libia, e dei suoi discendenti con gli occhi chiari e i capelli castani, come gli eredi dei legionari di Scipione, l’homo novus che conquista e romanizza l’Africa del Nord, che Roma considererà sempre parte profonda della sua identità imperiale.

Ci sono le confraternite sufi, che hanno lottato duramente contro il jihadismo sunnita durante e dopo le elezioni in Egitto, in Libia e in Tunisia, e sarà l’esoterismo islamico, forse, a rendere il nuovo Islam quello pacifico che si instaura con l’ultimo Califfato ottomano, che sarà l’obiettivo primario della Prima Guerra Mondiale. E forse sarebbe stata proprio la tradizione alawita, che Louis Massignon scelse per governare la Siria dopo il Patto Sykes-Picot del 1916, con il suo esoterismo, certificato come sciita dall’Imam Mussa Sadr nei primi anni sessanta, a poter inglobare nella separazione di Chiesa e Stato gran parte dell’indipendentismo islamico. Ecco, vedremo anche in seguito come questa filosofia della geopolitica potrà aiutarci a capire meglio le “ombre del domani”, per dirla con il titolo di un vecchio libro di Huizinga.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”

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