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Il Tfr in busta paga è un atto di criminalità economica

Anche la Banca d’Italia ha criticato, nella sede ufficiale di un’audizione parlamentare, l’operazione tfr in busta paga, mettendo in evidenza – questo è un colpo mortale inferto alle motivazioni su cui si basa la misura – che i primi a rimetterci sarebbero proprio i lavoratori di reddito medio basso, per effetto tanto della tassazione sulla base dell’aliquota marginale, quanto per il venir meno del meccanismo di rivalutazione previsto per il trattamento di fine rapporto.

Insomma, nel suo complesso e soprattutto per il notevole incremento della imposta sui rendimenti, l’operazione tfr in busta paga è un  vero e proprio atto di criminalità economica.  Da circa sette anni il settore della previdenza complementare giace dimenticato dai Governi che nel frattempo si sono succeduti. Dopo la riforma del 2007, costruita sul trasferimento del tfr maturando ad una forma di previdenza complementare, non vi sono stati ulteriori interventi, salvo qualche tentativo, sempre fallito, di eliminare la Covip portando le sue funzioni sotto l’egida di Bankitalia (Renzi farebbe bene a chiudere una volta per tutte questo ente inutile) e la proposta, rimasta sulla carta della Riforma Fornero, di consentire l’opting out volontario e parziale per stornare, dalla previdenza obbligatoria, qualche punto di aliquota pubblica alla previdenza a capitalizzazione.

La gelata, che a partire dal 2008, ha interessato i mercati finanziari, ha prodotto un generale imbarazzo ad occuparsi di un comparto che, essendo finanziato a capitalizzazione individuale, è stato costretto a misurarsi con la crisi. Nonostante queste difficoltà gli aderenti alle forme di previdenza privata – pur con evidenti squilibri tra le possibili tipologie e tra i diversi comparti del mercato del lavoro (la previdenza privata non riesce a decollare nel lavoro autonomo e nel pubblico impiego) – hanno continuato a crescere arrivando, nel giugno di quest’anno, a poco meno di 6,4 milioni di utenti. L’ammontare delle risorse destinate alle prestazioni ha superato i 121 miliardi (anche va detto che 50 miliardi sono detenuti dalle forme preesistenti ovvero dai fondi di più antica costituzione).

Alla previdenza privata sono destinati ogni anno – secondo un equilibrio abbastanza stabile – circa 5,5 miliardi provenienti dal tfr. Dal 2000 al 2013 il rendimento cumulato dei fondi pensioni negoziali, che pur ha dovuto sottostare alle oscillazioni dei mercati, è stato del 48,7% a fronte del 46,1% ottenuto, per legge, dal tfr. Nel corso del 2013 sono stati raccolti oltre 12 miliardi di euro di cui circa 8 miliardi destinati ai fondi negoziali. Certo, le difficoltà delle famiglie hanno pesato anche sull’attitudine al risparmio previdenziale.

Nel corso del 2013 circa 1,4 milioni di posizioni individuali (di cui un milione nei fondi aperti e nei PIP) non sono state alimentate da versamenti contributivi; molti aderenti si sono avvalsi della facoltà di chiedere le anticipazioni consentite, impoverendo così il loro montante contributivo. All’interno di un quadro difficile, ma non desolante, tra gli addetti ai lavori – a fronte dell’immutato rilievo che si continua ad attribuire ad un solido ed esteso secondo pilastro per assicurare futuri trattamenti pensionistici caratterizzati da una pur minima adeguatezza – ci si interrogava – non solo in Italia ma in ambito europeo ed internazionale – su come rilanciare un settore comunque strategico da molti punti di vista, inclusa la possibilità di avvalersi della fase di maturazione dei fondi pensione nazionali per dare un contributo – insieme alle Casse dei liberi professionisti –  al finanziamento delle imprese italiane e delle infrastrutture, investendo anche in queste allocation anziché, in larga prevalenza, come ora, nei titoli di Stato.  La via migliore sembrava essere quella che si persegue da vent’anni: rafforzare l’utilizzo del tfr quale principale fonte di finanziamento della previdenza privata, arrivando persino a prefigurare soluzioni semiobbligatorie.

Del resto l’impiego del trattamento di fine rapporto nella previdenza privata  è una scelta razionale, non comporta un incremento del costo del lavoro e rende attuale e disponibile durante il rapporto di lavoro una risorsa destinata al momento della sua cessazione. Bene. Il Governo ha deciso di #cambiareverso anche in questo campo. Il tfr finirà, per chi lo desidera, in busta paga al fine di  far lievitare i consumi mortificati dalla crisi. Affidiamoci, per adesso, al buon senso degli italiani, i quali sapranno compiere le valutazioni del caso, includendovi – come ha fatto notare la Banca d’Italia –  la conseguenza del maggior carico fiscale (almeno 5 punti in più di aliquota) che la monetizzazione del tfr comporterebbe.

Stendiamo un velo pietoso sul marchingegno escogitato per far liquidare, nel silenzio dell’Abi e della Confindustria,  il tfr alle banche, salvo consentire loro di rivalersi, in caso di inadempienza dei datori, su di un apposito fondo di garanzia presso l’Inps (con relativo aumento del costo del lavoro).  Ma perché aggiungere al danno della diversa allocazione dei ratei di trattamento di fine rapporto anche la beffa criminale di un maggior prelievo fiscale? Salvo modifiche, l’aliquota sui rendimenti passerà dall’11,5% ad almeno il 20%. Il che determinerà una riduzione netta del montante contributivo individuale su cui, nei prossimi anni, saranno calcolate, su base attuariale, le pensioni complementari dei 6,4 milioni di italiani aderenti ad una forma di previdenza a capitalizzazione.

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