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Ilva, perché capitali pubblici nell’acciaio italiano non sono una bestemmia

L’incalzare dei problemi giudiziari, produttivi, economico-finanziari e societari dell’Ilva, della Ast di Terni e della ex Lucchini di Piombino sta riaprendo in Italia fra addetti ai lavori e sulla stampa il dibattito sull’ipotesi di un ingresso di capitale pubblico in un nuovo e ancora non meglio definito assetto di siti strategici della siderurgia nazionale.

Al riguardo, incomincerebbe a prendere quota nel governo la possibilità – peraltro non sottaciuta dallo stesso amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti Giovanni Gorno Tempini – che un ruolo nella ridefinizione societaria almeno dell’Ilva possa essere assolto dal Fondo strategico italiano (Fsi) controllato dalla stessa CDP. Non appena tale ipotesi ha incominciato a circolare sui giornali, nelle stanze del ministero dello sviluppo economico e di alcuni sindacati sono insorti coloro che temono un ripetersi di errori del passato che portarono alla privatizzazione delle grandi aziende siderurgiche pubbliche su ingiunzione, non lo si dimentichi, delle autorità comunitarie.

Premesso comunque – e lo ricordiamo a coloro che non conoscono affatto, o hanno dimenticato la storia dell’industria italiana nel secondo dopoguerra – che il nostro Paese è diventato una grande economia mondiale grazie anche al Piano di Oscar Sinigaglia che, su mandato di Alcide De Gasperi, riordinò sotto il controllo dell’Iri la siderurgia pubblica nazionale, facendone uno dei motori della ricostruzione italiana e del successivo “miracolo”, è bene chiarire che, almeno nel caso dell’Ilva (ma anche della Ast) siamo in presenza di aziende tuttora di proprietà private con le quali bisognerebbe trattare un eventuale ingresso – a ben determinate condizioni e con precise finalità – di capitale pubblico nelle relative compagini azionarie.

Se la produzione di acciaio è considerato un asset strategico di ogni Paese che voglia diventare (o restare) una grande economia a livello internazionale, perché lo Stato – che con aziende controllate (ma con ampie presenze di capitali privati) presidia gli approvvigionamenti energetici, la difesa e altri settori industriali rilevanti – non potrebbe partecipare al sostegno, in esclusive logiche di mercato, di imprese siderurgiche di fondamentale importanza per l’industria italiana? Non si è forse chiarita abbastanza in questi due anni – dal fatidico sequestro avvenuto il 26 luglio 2012 dell’area a caldo senza facoltà d’uso dell’Ilva di Taranto – la sua incidenza sull’industria meccanica del Paese? Per anni questo stabilimento è stato ignorato dalla grande opinione pubblica, ma quando è stato sottoposto a misure giudiziarie, allora essa lo ha scoperto. Meglio tardi che mai, in ogni caso.

In realtà il nodo vero da sciogliere è il rapporto fra l’attuale proprietà che è del gruppo Riva – cui si associa con un 10% il Gruppo Amenduni che, peraltro, non è stato toccato da misure giudiziarie – nuovi azionisti (italiani o esteri che siano) e un possibile ingresso di capitale pubblico, apportato dal Fondo strategico italiano che in ogni caso può entrare solo in società con conti in attivo.

Come costruire allora, rispettando il ruolo di tutti gli attori e gli interessi in campo, un soggetto che dia continuità competitiva all’attività del sito di Taranto e di quelli che gli sono funzionalmente connessi a Genova e Novi Ligure? E come e in quanto tempo costruire una newco che separi impianti e gestione della società – con tutte le complesse perizie del caso degli asset da trasferire – da una bad company a carico della quale collocare i risarcimenti, se, quando e nella misura in cui verranno stabiliti dalle Autorità competenti, richiesti ai Riva?

E’ un difficile teorema di politica societaria, industriale e finanziaria che esige lucidità di obiettivi, grande rigore tecnico-giuridico, ma anche e soprattutto tempi ravvicinati per la necessità impellente di assicurare continuità operativa all’esercizio di un impianto come quello ionico che è – lo ripeteremo sino alla noia – la più grande fabbrica manifatturiera d’Italia con i suoi 11.480 addetti diretti (più i circa 5.000 nell’indotto di primo livello), oltre che il maggior complesso siderurgico a ciclo integrale in Italia e in Europa.

La decisione del giudice di Milano di trasferire in conto futuro aumento di capitale dell’Ilva, intestando le azioni a Equitalia, il miliardo e 200 milioni di proprietà di un ramo della famiglia Riva – posti a suo tempo sotto sequestro per presunti reati fiscali – finalizzandone l’impiego all’attuazione dell’Aia, è una misura sicuramente utile, attesa e prevista dalla legge, che però potrebbe avere tempi non brevissimi di attuazione, nonostante il giudice abbia stabilito l’immediata esecutività della sentenza che riguarda risorse (tutte liquide?) non depositate in Italia e gestite peraltro dalla UBS.

Nel frattempo, che succede per la gestione corrente dell’Ilva, dal momento che le banche non vogliono erogare la seconda tranche di 125 milioni a suo tempo deliberati e coperti per legge dalla prededuzione in caso malaugurato di fallimento dell’azienda? Allora, ci si concentri a fondo su questi aspetti societari e finanziari di estrema complessità e si guardi con favore ad un ingresso nell’operazione – nel rispetto delle norme che lo consentirebbero e alla luce degli interessi nazionali – della Cassa depositi e prestiti, tramite il Fondo strategico italiano. D’altra parte, perché la Francia etatist e la Germania – che protegge e salva le sue banche – possono tutelare gli interessi nazionali e l’Italia no?

Federico Pirro (Centro studi Confindustria Puglia)

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