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Perché non siamo di fronte a una Terza Intifada. Parla Benedetta Berti

L’ultimo attentato in una sinagoga di Gerusalemme, costato ieri la vita a quattro rabbini e un poliziotto, ha riportato la tensione in Israele a un livello altissimo. Hamas parla di terza Intifada – ovvero una rivolta araba diretta a porre fine alla presenza israeliana in Palestina – ma non tutti gli osservatori sono d’accordo.

Delineando gli scenari futuri, il perché lo spiega in una conversazione con Formiche.net Benedetta Berti, lecturer delle università di Tel Aviv e Ben Gurion, associate fellow dell’Institute for National Security Studies e autrice del libro “Armed Political Organizations: From Conflict to Integration”.

Come si è arrivati all’attentato alla Sinagoga?

Negli ultimi 4-5 mesi si è assistito a un progressivo processo di deterioramento della situazione. C’è stata una serie di episodi violenti, il cui il filo conduttore è quello dei rapporti sempre più tesi tra la popolazione araba di Gerusalemme Est – la parte orientale di Gerusalemme occupata da Israele con la Guerra dei sei giorni dal 1967 – e l’intera società israeliana. Il primo evento è stato l’uccisione del giovane arabo residente a Gerusalemme Est, avvenuta dopo il rapimento dei tre ragazzi israeliani in Cisgiordania. Da allora è un crescendo di manifestazioni e confronti con la polizia, che sembra solo poter peggiorare, almeno nell’immediato.

Da cosa deriva questa tensione crescente?

A parte i tradizionali motivi politici, l’aspetto più preoccupante è che nelle tensioni inizia ad assumere sempre più importanza l’elemento religioso. Il governo deve dire con molta chiarezza che non vuole limitare l’accesso al Monte del Tempio e ad altri luoghi presenti a Gerusalemme Est, che anche i musulmani considerano sacri e che temono di perdere.

Si va verso una Terza Intifada, come annunciato dai terroristi di Hamas, che hanno rivendicato la strage nel luogo di culto?

Ritengo di no. I motivi sono sia politici sia pratici. Da un lato l’Autorità Nazionale Palestinese non è interessata a uno scenario di questo tipo. Dall’altro, bisogna rilevare che, fino ad ora, malgrado le speculazioni, gli episodi di violenza avvenuti si sono caratterizzati per essere frutto di azioni solitarie o comunque di piccoli gruppi, senza collegamenti importanti con nuclei organizzati. Difficile, dunque, chiamarla Intifada, ma ciò non vuol dire che la situzione non sia grave. Tanto più che l’Anp, che come detto ha una linea diversa al momento, non ha nessuna presenza e influenza su Gerusalemme Est, dove la leadership di Mahmūd Abbās non viene riconosciuta. Il rischio che intravedo non è quello di una sollevazione, bensì di un più insidioso e continuato ciclo di violenza.

Il Parlamento spagnolo ha approvato oggi una risoluzione per il riconoscimento della Palestina come Stato indipendente. E’ il terzo parlamento europeo a farlo, dopo Gran Bretagna e Irlanda. Credi che ciò cambi qualcosa nei rapporti tra Tel Aviv e Palestina?

Vista la tensione domestica e le caratteristiche e le idee della leadership politica attuale, sento di escludere che un riconoscimento formale dello Stato palestinese porti a un cambiamento politico per Israele. Servirebbero sia un mutamento interno, sia una spinta più forte sul piano internazionale.

Quale sarà l’evoluzione del quadro politico in seguito a questi avvenimenti? E quale la risposta delle autorità israeliane?

Il premier Benjamin Netanyahu è politicamente sotto una pressione molto forte da parte del suo partito e del gabinetto. Gli si chiede una risposta forte, che si sta traducendo in un aumento dei posti di blocco e della polizia nelle strade o nella demolizione delle case degli attentatori, come egli stesso ha annunciato. Ovviamente questa rappresenta una soluzione a breve termine. C’è da dire che un governo non può fare molto, nell’immediato, contro episodi autonomi di lupi solitari, a parte blindare maggiormente la città. A lungo termine, invece, l’unica carta da giocare è quella del dialogo tra le parti: solo così si eradicheranno alla radice le ragioni dello scontro. Solo così si potrà tentare di superare uno dei momenti di crisi più complessi dell’ultimo decennio.

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