Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Senza intelligence economica e finanziaria, non vi è sviluppo possibile per il nostro Paese.
Tutela dei brevetti, delle tecnologie immateriali e di quelle visibili, tutela dei mercati esteri e nazionali da azioni di dumping compiute da nemici o alleati geopolitici, difesa, poi delle imprese dalla mano delle organizzazioni criminali sia di tradizione italiana che provenienti dall’estero, come già sta accadendo in alcuni dei nostri più antichi distretti produttivi, e poi ancora la difesa delle nostre ragioni di scambio, anche all’interno della moneta unica, ecco, sono queste, tra le altre, tutte azioni che solo l’intelligence, perfettamente coordinata e utilizzata dai Governi, può condurre.
Tanto più che il tessuto produttivo italiano è composto, ce lo dice l’ISTAT, da imprese con una dimensione media di 3,7 addetti, mentre le microimprese, ovvero le aziende con meno di dieci dipendenti, sono il 95,1% di tutte le imprese attive, mentre nelle grandi imprese, quelle con oltre 250 addetti, si trova solo il 19,4% degli addetti.
Quindi, si tratta di proteggere un tessuto produttivo debole, e può farlo solo l’intelligence vera e propria, i Servizi, ovvero quelle che oggi, dopo la riforma del 2007, vengono chiamati Agenzie.
Nessuna piccola e media impresa può permettersi i costi e le strutture, senza nemmeno immaginare gli sforzi per lo specifico know how, per proteggere sé stessa, i suoi mercati elettivi, le sue tecnologie e i suoi progetti di sviluppo da sola, senza ricorrere alle Agenzie statuali per l’intelligence,
Le nostre imprese hanno una propensione all’esportazione (che è il rapporto tra fatturato per l’export e fatturato globale) di oltre il 30%, tra i più alti nel mondo, e non possiamo più permetterci di mandare le nostre aziende, per citare una metafora evangelica, “come pecore tra i lupi” del commercio mondiale, visto peraltro che i nostri concorrenti, dentro e fuori l’area Euro, giocano anche loro al gioco dell’economia export-oriented.
Oggi non c’è più la vecchia “linea X” del KGB e dei Servizi tedeschi dell’Est, che era finalizzata a rubare i brevetti occidentali per evitare che le industrie del mondo sovietico fossero costrette, e sarebbe stata per loro la fine, a spendere fortune nella Ricerca & Sviluppo, ma la guerra economica di tutti contro tutti è una realtà con la quale dobbiamo fare i conti, e farli presto.
Nella tradizione francese, una linea di pensiero che ha prodotto la brillante École de Guerre économique, EGE, l’intelligence economica è una disciplina che deriva dal marketing e dalla teoria dell’impresa moderna, e la protezione delle strutture, delle tecnologie e dei programmi è, in linea di massima, interna alla struttura aziendale, che si coordina però con le Agenzie di intelligence nazionali all’occorrenza.
Ma bisogna ricordare che queste operazioni, proprio per utilizzare la terminologia dei vecchi Servizi francesi, devono avere sia la parade che la rèponse.
In altri termini, le attività di protezione delle imprese sono sia passive, per chiudere il cerchio decisionale e tecnologico allo sguardo dei malintenzionati concorrenti, sia attive, per punire quelli che attentino alla sicurezza dei brevetti, delle tecnologie, degli asset materiali o intangibili di tutte le aziende.
Si può e si deve punire, anche con pratiche eterodosse, quando occorra, e quindi con l’aiuto del personale dei Servizi-Agenzie statuali, l’impresa straniera che abbia attentato alla sicurezza di un concorrente italiano.
Certo, gli strumenti sono variegati e non necessariamente alla James Bond che, come notava ironicamente Francesco Cossiga, “sarebbe stato fermato anche da un vigile urbano”.
Ma mi viene in mente di quando una notissima azienda dolciaria italiana riuscì a portare in tribunale, in Cina, l’industria locale che produceva un “qualcosa” palesemente simile a quello italiano, anche con una etichetta “misleading” che copiava i colori e la forma dei caratteri indicanti il prodotto italiano.
Bene, in quel caso si mossero i Servizi, e ci mancherebbe altro, e l’impresa italiana ebbe ragione sull’imitatore locale.
Ma non tutti i Paesi hanno leggi sulla protezione della proprietà intellettuale come le nostre in area EU, e quindi occorre che le nostre Agenzie, allertate dagli stessi produttori, si muovano, anche con la necessaria durezza, nei confronti degli imitatori esteri o delle azioni di protezione indebita dei mercati esteri penetrati dalle nostre aziende.
Proteggere i mercati, quindi, proteggere i brevetti e l’immagine dei prodotti, troppo spesso alcune nostre produzioni sono state oggetto di illecita propaganda negativa all’estero, proteggere infine l’impresa italiana operante all’estero da ritorsioni di carattere bancario, finanziario, giuridico, una “guerra non ortodossa” che spesso ha chiuso mercati amplissimi alle nostre imprese.
Viene in mente la tecnica raffinatissima del vecchio MITI, il ministero per il commercio estero giapponese, quando richiedeva ai nostri produttori di automobili un determinato carburatore, per motivi, naturalmente, “ecologici”, da inserire obbligatoriamente nelle automobili da esportare in Giappone e che, guarda caso, veniva prodotto solamente da un’azienda del Sol Levante.
Ecologismo, protezione dell’ambiente, protezione del consumatore ed altre questioni oggi molto attuali sono, al di là del loro oggettivo fondamento, delle raffinate tecniche di protezione non tariffaria dei mercati nazionali.
Quando il Parlamento Europeo obbligava a definire una certa “curvatura” delle banane per permetterne l’importazione, o si interessava alla volumetria dei piselli, nel senso, ovviamente, dei verdissimi legumi, oltre a far ridere i lettori dei giornali e gli antieuropeisti (e ci sarebbero argomenti più seri, oggi, per continuare a ridere) metteva in essere una feroce barriera non-tariffaria.
Quindi, data la struttura del nostro sistema produttivo, e data anche la forte penetrazione di capitali e imprese straniere nel nostro tessuto imprenditoriale, è centrale che i Governi d’Italia, oggi più di prima, si concentrino sulla intelligence economica e finanziaria.
I Servizi, le Agenzie che sono uscite dalla Riforma del 2007 di tutto il comparto intelligence, hanno preso sul serio, anche sul piano istitutivo, la questione della protezione delle imprese e del lavoro italiano in un’epoca di globalizzazione sempre più spinta come la nostra, e questo, rispetto ai vecchi Servizi che di queste cose ritenevano di non occuparsi, o magari lo facevano su ordine preciso del Ministro, per salvare qualche grandissima impresa italiana.
Ma, forse, la soluzione francese, quella di inserire l’intelligence economica dentro il “saper fare” delle singole aziende, va bene ma manca di qualche utilissimo dettaglio.
Per esempio, è noto che amici e avversari economico-finanziari colpiscono di solito singole aziende, magari quelle più aggressive e innovative ma soprattutto operano con azioni di denial di settore: la chiusura delle importazioni agroalimentari dovuta ad una certa normativa restrittiva sugli additivi o i grassi, oppure la cessazione delle importazioni di apparati elettromeccanici dopo che qualche scandalo fittizio o abilmente montato sui media ha rivelato qualche incidente domestico legato all’apparato X, quindi collegando, secondo le più tradizionali tecniche pubblicitario, il prodotto italiano ad un fatto negativo.
Si pensi qui ai danni colossali che la SARS, che pure era un pericolo serissimo, ha apportato all’export cinese, proprio in una fase nella quale Pechino desiderava internazionalizzare il più possibile la sua economia.
Ecco: se esiste nelle Agenzie italiane sorte dalla Riforma del 2007 la percezione e la struttura per la protezione dei nostri mercati, non esiste invece questa percezione all’interno di una classe politica tra le meno informate e culturalmente evolute della nostra storia repubblicana.
Infatti, sempre per riportarci al modello francese di intelligence economica, occorre mettere in atto anche azioni di influenza, come quelle classiche dell’intelligence di sempre, per proteggere i nostri brevetti, condizionare i consumatori stranieri e, soprattutto, veicolare una immagine positiva di tutto il nostro Paese, e soprattutto dello Stato.
Noi, dopo l’operazione, anche estera, chiamata “tangentopoli”, siamo diventati una nazione con il mito della “società civile”, una terminologia che, in Hegel che l’ha inventata, riguarda le strutture sociali appena più complesse della famiglia.
Non vi è Società senza Stato, e la “società civile” non può essere un succedaneo di uno Stato che viene sistematicamente offeso, denigrato, sbertucciato o, peggio, ridotto a coordinamento delle famigerate e costosissime “autonomie locali”, che nulla possono per favorire e proteggere i nostri prodotti.
Si tratta quindi, di permettere alle nostre Agenzie l’azione microeconomica, l’analisi dei contratti e delle tecnologie, anche finanziarie, utilizzate specificamente dai concorrenti.
L’intelligence economica, peraltro come quella strategica, è fatta di infinite micro-informazioni che, alla fine, l’analista compone in un quadro omogeneo e di medio-lungo periodo.
Quindi, se dovessimo parlare di un ciclo dell’intelligence economica, parallelo a quello classico dell’analisi strategica, si potrebbe dire che si parte dalla raccolta di tutti i dati, poi si selezionano e si analizzano, proprio come i dati strategico-militari, infine si delinea una strategia di azione, che deve essere posta in essere subito, i mercati globalizzati non aspettano i nostri comodi.
Questa esigenza specifica di rapidità fa sì che occorrono, nella nostra ipotesi di intelligence economica, due elementi nuovi rispetto ai vari modelli francese, anglosassone, cinese: il primo, legato alla rapidità della operazione, riguarda l’accorciamento della catena di comando dell’operazione: le Agenzie, danno informazione a chi di dovere, nell’Esecutivo, tramite l’Autorità Delegata, poi spiegano alcuni dettagli e vanno direttamente a operare sui mercati.
Come avvenne, peraltro, nelle more dell’”operazione Tangentopoli”, quando un operativo dei nostri Servizi entrò nella borsa affari di New York a “lavorare” su certi titoli.
Secondo elemento: superare, in intelligence economica, la divisione tra azioni difensive e offensive.
Lo spionaggio economico e industriale si fa, si deve fare, si deve fare ancor di più e meglio di quanto oggi non accada, il che implica, fra l’altro, che la o le stesse Agenzie devono tutelarsi sul piano legale da eventuali azioni della magistratura interna o estera.
Chi non spia le tecnologie altrui regala ipso facto le proprie al peggiore dei concorrenti.
La “tutela funzionale” prevista nella Legge del 2007 che riforma i nostri Servizi è qui troppo poco e troppo tardi. E’ probabile che sia così anche nel caso delle azioni strategiche, perché non si protegge un Agente nel Processo, magari dopo che i mass-media hanno rivelato vita, morte e miracoli dell’operazione, ma lo si deve proteggere dal processo penale, perché un Operatore dei Servizi, anche in azioni di intelligence economica e finanziaria, fonda il suo diritto a infrangere le leggi sulla necessità di proteggere l’integrità della Sovranità Nazionale e dell’intero Ordinamento, che è interesse prevalente rispetto alla tutela di ogni singola norma.
Penso, per esempio, a Fondi finanziari creati o diretti, all’interno delle regole economiche vigenti, dalle stesse Agenzie, che operino, secondo i criteri economici correnti e nel più completo anonimato, per la tutela e la protezione dei nostri asset economici e produttivi, o che addirittura finanzino imprese o aziende che le Agenzie, in coordinamento con i Ministeri competenti, ritengono strategiche per lo sviluppo nazionale.
Già, perché si tratta proprio di sviluppo nazionale, non di chiacchiere sul “territorio” o sulle troppo espanse “autonomie locali”, che stanno allo Stato come la plastica sta alla giada.
Quindi, maggiore autonomia delle Agenzie in ambito di intelligence economica e, lo ripeto, di lecito spionaggio industriale, catena di comando corta tra Agenzie e Esecutivo, infine la definizione di un nuovo concetto di “interesse nazionale” dove, alla protezione dei nostri brevetti e delle nostre quote di mercato si somma anche la tutela della nostra immagine-Paese e quindi occorre proteggere non solo il tessuto industrale che già c’è, ma anche quello che potrà esserci in futuro. Siamo, e resteremo, una grande manifattura globale, e le favole sulle economie “di servizi” e di puro terziario immateriale sono state un vero disastro per la progettazione della nostra proiezione economica nel globo.
Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”