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Così il petrolio spacca ancor più la Libia

La Libia è ormai un Paese provato, spaccato a metà, e non solo idealmente. Una frattura che non si manifesta soltanto attraverso uno scontro tra “blocchi” contrapposti, ma anche in una vera e propria moltiplicazione di enti, cariche politiche, istituzioni, di cui è stato testimone il difficile vertice Opec in svolgimento a Vienna.

Da una parte ci sono le città controllate dai miliziani filo-islamisti, al comando a Tripoli e Bengasi, politicamente guidati dalla Fratellanza musulmana; dall’altra il governo e il Parlamento – sciolto da una sentenza della Corte suprema – riconosciuti internazionalmente e rifugiatisi a Tobruk.

LE ULTIME POLEMICHE

Ieri, scrive il Libya Herald, il governo guidato dal premier Abdullah al-Thinni, ha nominato Al-Mabrook Buseif nuovo presidente della National Oil Company (Noc), l’azienda petrolifera nazionale. Una nomina dalla forte carica comunicativa, perché fatta poco prima del vertice dei Paesi produttori, chiamato a discutere delle misure per fronteggiare il crollo del prezzo del greggio degli ultimi mesi. Il messaggio, però, piuttosto che all’Opec, è indirizzato proprio all’autoproclamato esecutivo della Tripolitania, che con le parole di Mashallah Zwai, ministro del Petrolio del Governo ombra di Tripoli, ha lamentato di non essere stato invitato al vertice, rivendicando il suo personale controllo sulle risorse energetiche del Paese.

LA CHIAVE ENERGETICA

D’altronde – commenta Roberto Bongiorni sul Sole 24 Ore – “per l’ex regno di Muammar Gheddafi il petrolio è tutto: il 98% dell’export in valore e il 96% delle entrate governative“. La Libia “produce solo poco più della metà dei livelli precedenti la rivoluzione scoppiata nel 2011, quando dai rubinetti dell’ex colonia italiana uscivano 1,6 milioni di barili al giorno“. Oggi “produce ben sotto la sua quota, circa 700mila barili/giorno“.

I RISCHI  E LE SOLUZIONI

Le due vere sfide in Libiascrive Mattia Toaldo, analista presso lo European Council on Foreign Relations di Londra – sono ridurre gli spazi ingovernati che generano traffici illeciti e violenza e portare il paese fuori dalla polarizzazione internazionale“. E nonostante la situazione sia critica, sono pochi gli osservatori disposti a vedere all’orizzonte, almeno nel breve periodo, una vera e propria secessione. Il rischio, semmai, è quello che a poco a poco i governi occidentali si allineino a posizioni che non tengono conto della complessità della situazione e della necessità di puntare su una pacificazione nazionale.

Ecco perché la comunità internazionale pensa a misure alternative a un intervento sul campo, che colpiscano anche le entrate del petrolio. Se è vero che le due fazioni si contendono ferocemente le risorse del Paese (compreso il controllo della Banca centrale, dove si trovano le riserve in valuta pregiata), è altrettanto scontato che nessuno sia interessato ad un crollo totale dell’estrazione del greggio. Ecco perché, sostengono gli analisti, si fa (o dovrebbe farsi) sempre più largo una strategia che punta a un controllo internazionale temporaneo delle istituzioni economiche del Paese, con l’obiettivo di sottrarre alle parti in causa un importante elemento di scontro.


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