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Per l’Italia meglio le dimissioni di Napolitano o il voto anticipato?

In uno Stato in cui sono stati scossi alcuni “equilibri” fondamentali (nei rapporti sovranità popolare-magistratura e più in generale Stato-suoi apparati, parlamento-governo, centro-autonomie) determinando un inedito (anche rispetto alla già ben ben condizionata stagione della guerra fredda) sistema di influenze “esterne” sulle nostre istituzioni, quel pasticcio costituzionale che è la nostra presidenza della Repubblica è diventato il punto di penetrazione sia del peso degli apparati sullo stato sia delle influenze straniere: come bene si è constatato prima nella partita dissennata da noi giocata sull’euro e oggi con la nostra estrema subalternità – dal 2010 in poi – con solo piccolissimi riscatti, non ancora decisivi, renziani.

La guerra per la conquista del Colle già assai dura quando la nostra democrazia era mal sistemata ordinamentalmente ma sostenuta dagli assetti internazionali, è diventata drammatica dopo il ’92, ed è oggi terribile. Ciò si coglie anche da un piccolo segnale come “l’avviso” a Roberta Pinotti appena questa si è sentita minimamente quirinabile.

Ancor più significative le mosse di Carlo De Benedetti che prima sul Foglio e il Corriere della Sera ha lavorato per costruire un accordo su Giuliano Amato, poi quando questo accordo si è profilato, lo ha fatto buttare alle ortiche facendo scrivere sulla Repubblica che Amato era il candidato di Silvio Berlusconi, forse preparandosi a sostenere Romano Prodi o mettendosi comunque a disposizione di uno dei tanti movimenti di destabilizzazione in atto.

Lo scontro sulla presidenza della Repubblica del 2013, poi quello sui giudici costituzionali del 2014 fanno bene intendere che cosa succederà quando e se Giorgio Napolitano si dimetterà in questo contesto politico. Tutte le influenze più o meno legittime si scaricheranno su un quadro già impazzito (non c’è più un luogo “pacificato” in tutto l’universo politico: persino Maurizio Gasparri si mette a litigare sguaiatamente con Giorgia Meloni) ancor prima che gli elettori emiliani (cioè quelli che tradizionalmente rivendicavano, talvolta con arroganza, il loro civismo più intransigente) mandassero un messaggio di profonda sfiducia nelle istituzioni.

E quando si ragiona di influenze oltre a quelle ben presenti in Italia (come scrivevamo prima: anche solo una piccola riflessione sul minuscolo caso Pinotti fa capire la dimensione del problema) il vero scenario da tenere presente è quello internazionale: e le varie “mosse” su Amato, Pinotti, Prodi paiono rispondere innanzi tutto a diverse ipotesi di assestamento degli equilibri europei e atlantici.

In questo senso, per comprendere l’asprezza del confronto americano-tedesco e dei condizionamenti che determina, basta considerare la determinazione con cui il nuovo presidente della Commissione europea (decisivo per gli equibri tra Mario Draghi e l’ala Bundesbank del governo tedesco) è stato messo sotto accusa per il suo passato di governo lussemburghese soprattutto in campo fiscale da quello che La Repubblica con ironia (involontaria?) ha chiamato un “consorzio informativo americano” (notare l’acronimo).

La nostra politica, la nostra sovranità popolare e parallelamente quella nazionale sono state oggettivamente degradate dall’incapacità di Napolitano (pur personalmente fedele alla Costituzione e uomo di cultura e buona volontà) di proteggere le istituzioni democratiche, certo non aiutato dalle tante stupidaggini berlusconiane: ma ciò non scusa i gravissimi peccati di omissione del Quirinale nonché le deplorevoli scelte promosse a inziare da Mario Monti, Enrico Letta fino al sostegno della scissione alfanoide. Matteo Renzi – anche grazie alla sponda atlantica che resiste alla dispiegata egemonia tedesca – ha aperto qualche spazio ma lo fa più destrutturando che costruendo: sia istituzionalmente, sia nel partito, sia anche nel rapporto con i corpi intermedi. Qualche dadaista (in parallelo con persona colta e intelligeente ma delirante come Angelo d’Orsi) sostiene che questa vena destrutturante del presidente del consiglio ne fa l’erede di Berlusconi: è una valutazione al fondo senza senso.

Mentre si può giustificare che un ampio schieramento sociale prima che politico, tenuto fuori dall’establishment e tendenzialmente dalle istituzioni, abbia “dovuto” esprimersi con “quello che trovava” cioè anche con un imprenditore geniale ma pieno di conflitti d’interesse e di comportamenti impropri per un uomo di Stato, nonché senza un’adeguata cultura politica; mentre si può difendere anche per la persecuzione giudiziaria a cui è stato sottoposto una figura di questo tipo: accettare che anche a sinistra, cioè nel luogo dove ci sono ancora legami articolati con quel che resta dello stato, si ripeta lo stesso schema di (parziale) genialità & (totale) sregolatezza, è un delitto in parte verso la ragione e in parte verso la Repubblica. Che segue, peraltro, il peccato d’omissione del non avere aiutare il “matto di Arcore” a darsi un programma di riforme istituzionali all’altezza della crisi del nostro Stato. Ripetere ingigantito l’errore con il bulletto di Firenze sarebbe stellarmente più dannoso (e ingiustificabile). Né vale la tesi che “l’intendance suivrà”: il profilo gollista non c’entra niente né con i “matti” né con i “bulletti”. E per carità non tiriamo di mezzo Bettino Craxi che è stato sconfitto, ha sbagliato in diverse occasioni ma aveva un’idea e una squadra riformiste non comparabili con quel che è sceso in campo negli anni ’90 e nel Duemila.

Non è facile peraltro vedere una via di uscita in positivo da questa situazione, i margini per una presidenza di garanzia sono molto stretti e rischiano di essere compromessi dal clima che presto si creerà in Italia: non è male ricordare che per impedire l’elezione di Giulio Andreotti a presidente della Repubblica la mafia uccise Giovanni Falcone.

Così a occhio l’unica risorsa sarebbe quella del voto: solo un vento fresco spinto dai suffragi dei cittadini potrebbe aprire una qualche nuova via. Si dirà che i tacchini/parlamentari eviteranno il pranzo di Natale finché sarà loro possibile. Però ci sono renziani, leghisti, un bel po’ di forzisti, una buona parte dei grillini che se si facesse limpidamente questa scelta, la renderebbero inevitabile. E se Napolitano si sottoponesse a un adeguato esame di coscienza, alla fine potrebbe agevolarla piuttosto che far scegliere il suo successore da un Parlamento chiaramente allo sbando e largamente delegittimato (anche dall’alta corte: con qualche responsabilità del Colle).


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