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Un Paese di articoli 18 ha dimenticato la fiducia

L’Italia è un sistema blindato che protegge con la forza la sua sfiducia diffusa. È un’affermazione difficile da digerire, ma che ben rende il concetto di un Paese che ha costruito i propri meccanismi sociali ed economici su una serie infinita e ripetitiva di “articoli 18”. Ovvero, un Paese che ha alla base del funzionamento civile l’assoluta, intaccabile, indelebile sfiducia nel comportamento dell’altro. Da intendersi come “altro individuo” oppure “altro istituzione” o ancora “altro azienda”.

 

ARTICOLO 18, COMMA 22

L’oggi assai declamato articolo 18 è l’esempio dei paradossi che un sistema blindato inevitabilmente finisce per generare. In sé, una regola garantista del posto di lavoro rappresenta una conquista della storia sociale. Il problema è il contesto al quale la si applica. E qui si finisce in una sorta di comma 22 (un codice militare americano che affermava: chi è pazzo può chiedere l’esenzione dal servizio di guerra, ma chi lo chiede non può essere pazzo). Tale norma, infatti, funzionerebbe a meraviglia in un mondo ad alta coscienza etica. In tale mondo etico, le parti garantite (in questo caso, il lavoratore) dovrebbero avere piena coscienza che una simile arma (l’articolo 18) non va usata in modo improprio, ossia che il suo utilizzo associa diritti a responsabilità, ovvero doveri. La conseguenza di un uso improprio, infatti, è quella di creare stuoli di “occupati” ad altissimo grado (e pretesa) di protezione sindacale, e ancor più numerosi stuoli di “disoccupati” a protezione zero. Per contro, la stessa arma (l’articolo 18) finisce per essere attivata, e quindi per deflagrare, in un sistema imprenditoriale aggressivo e prevaricante, in cui la tentazione dello sfruttamento prevalga sull’ambizione a dare lavoro. Ancora, in una simile situazione, la forza deterrente dell’articolo 18 finisce non per attenuare i comportamenti “distorti” dell’impresa, bensì per acuirli, di fatto spingendo a trovare ogni strada alternativa all’assunzione a tempo indeterminato.

Ecco dunque il paradosso: l’articolo 18 può funzionare solo in un sistema economico-sociale a elevata responsabilità etica. In questo sistema, però, l’articolo 18 finisce per perdere il proprio senso di esistere. Di conseguenza, lo stesso articolo, nato in un sistema non etico, finisce per procrastinare le condizioni per la sua sopravvivenza, ergo a mantenere il sistema (poiché lontano da una dimensione di responsabilità) in uno stato di continuo malfunzionamento.

 

LA SFIDUCIA DIVENTA CRONICA

Gli effetti più devastanti del malfunzionamento imposto da questi “articoli 18”, ossia la serie delle dure protezioni ex lege di posizioni e diritti acquisiti per natura o per charta, toccano in modo strutturale la coscienza del Paese. Nati, appunto, sul presupposto che l’Italia fosse una società senza identità civica (fatto originario indiscutibile), nella quale il bene comune o l’immagine (vergogna) pubblica non erano leve incentivanti (disincentivanti) ad agire per il bene condiviso, hanno reiterato nel tempo tale presupposto, rendendolo fattore strutturale. Di fatto, l’imperio della legge ha impedito lo sviluppo di una “discrezionale” attitudine civica. L’esito finale è che l’intero spettro delle relazioni socio-economiche nazionali manca di un collante naturale insostituibile: la fiducia, appunto, che la controparte agisca nel rispetto di un bene reciproco.

 

UN POPOLO CHE NON CREDE

Oltre che dalle cronache sindacali di questi giorni ultimi giorni, lo spunto al ragionamento arriva dai risultati dalla ricerca sulla propensione al risparmio degli italiani, presentata la scorsa settimana e condotta da Ipsos per l’Acri (Associazione Fondazioni di origine bancaria e le Casse di Risparmio). Nella moltitudine di informazioni, spicca un dato emblematico: coloro che ritengono sbagliato investire, in una qualsiasi forma, il proprio risparmio, sono il 32% degli italiani.

In altri termini, un italiano su tre ritiene che non ci siano le condizioni di fiducia per impiegare il proprio denaro. E scende al minimo anche la quota di coloro che, avendo invece deciso di investire, lo fa tenendo presente «lo sviluppo dell’Italia, anche se il rendimento è inferiore». Insomma, il distacco è completo.

È sintomatica la domanda che viene posta per cercare di sviscerare questa sfiducia: «Secondo lei, le regole, leggi e controlli che tutelano il risparmio in Italia quanto sono efficaci?». Il che conferma come, anche nella mentalità di chi interroga, la fiducia si debba basare su «regole, leggi e controlli». I quali hanno dimostrato di non funzionare. E, soprattutto, di non creare fiducia: il 65% degli intervistati ha risposto «no». Addirittura il 30% circa ha risposto pesantemente «no».

 

RESPONSABILITÀ AL POSTO DEI DIVIETI

Il Paese che oggi scende in piazza per l’articolo 18 è lo stesso Paese che ha smesso di investire i suoi risparmi, perché non ha fiducia in «regole, leggi e controlli»

Questo sistema è sostenibile per chi lavora? O per chi non lavora? È sostenibile per un’impresa? Per una banca? Per chi governa?

La strada per uscire dal comma 22 è quella di sostituire la selva di articoli 18 con qualcosa di diverso, qualcosa che accomuni chi fa impresa con chi ci lavora, chi fa credito con chi investe.

È questo che occorre rispondere a chi chiede, saccente e incredulo, «ma a cosa serve la Csr?».

Serve a un mondo che sostituisca, a regole e controlli, il valore più importante: la fiducia.

 

 

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