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Pensioni, il furore ideologico che ottunde le menti

La massima aspirazione dell’italiano medio (rappresentativo di quella che chiamano ‘’opinione pubblica’’) consiste nel lavorare il meno possibile, andare in pensione il prima possibile e ricevere un assegno il più alto possibile. In generale, risulta abbastanza difficile realizzare queste aspirazioni tutte insieme. Le pensioni sono condizionate, da un lato, dalle retribuzioni dei lavoratori attivi, che, nel modello di finanziamento a ripartizione, fanno fronte con i loro versamenti contributivi ai relativi oneri dello stock dei trattamenti in essere. Non è immaginabile, allora, che una persona migliori la sua condizione economica nel momento in cui smette di lavorare e che dei livelli retributivi medi come quelli erogati in Italia a chi è tuttora nel mercato del lavoro, possano sostenere pensioni di tanto superiori ai mille euro mensili (la soglia che di solito viene presentata come la frontiera del disonore e dell’iniquità del nostro modello di welfare).

Dall’altro lato, l’importo della pensione è la conseguenza della storia lavorativa di una persona: a determinarne la qualità non possono essere del tutto escluse le sue responsabilità personali. O collettive di un intero settore. E’ inutile, da questo angolo di visuale, che le organizzazioni agricole, ad esempio, lamentino la modestia dei trattamenti riconosciuti agli iscritti della relativa gestione, quando essa è in grado di pagare le pensioni grazie ai robusti apporti di solidarietà (per diversi miliardi all’anno) da parte delle altre gestioni e dei trasferimenti dello Stato. Peraltro, il sistema attuale prevede un intervento di carattere solidaristico a carico della finanza pubblica nell’ordine di 25 miliardi l’anno circa, per garantire l’integrazione al minimo a favore dei milioni di prestazioni che, sulla base del puro calcolo dei contributi versati, non arriverebbero a conseguire neppure il livello minimo legale.

Solitamente, quando giornali e tv sparano dei dati sulle pensioni (riconosciamo che in ogni caso non c’è da stare allegri) danno l’impressione di ritenere che, nell’ultima fase della vita delle persone, lo Stato si trasformi in una buona fatina che assicura agli anziani un trattamento corrispondente ai loro bisogni, a prescindere dalla posizione previdenziale che essi sono stati in grado di predisporre durante la vita attiva. Così, quando qualcuno riesce a realizzare per sé il sogno recondito degli italiani (vedi il caso dei pensionati baby o, in termini ancor più grondanti di odio, i ricchi vitalizi – quasi sempre ottenuti dopo pochi anni di ‘’servizio’’ – erogati a parlamentari, consiglieri regionali, membri delle diverse authority e quant’altro), costui diventa subito una persona da crocifiggere: si evoca l’idea della giustizia, ma a parlare è l’invidia nei confronti di chi ce l’ha fatta.

Tutto ciò, in fondo, sta a dimostrare che – tanto il povero quanto il benestante – hanno in testa l’idea fissa della pensione. Si tratta di situazioni da correggere e che in parte sono state già corrette. Ma attaccare le ‘’pensioni d’oro’’ fa sempre buon gioco. Anzi esiste, nei grandi quotidiani, la congrega degli ‘’indignati speciali’’ che, attraverso questo argomento evergreen, si è garantita delle vere e proprie fortune in diritti d’autore. L’ultima crociata ha riguardato, addirittura, non una norma operativa, ma una mancante nella riforma Fornero del 2011. E’ noto, infatti, che con un buon substrato di furore ideologico, il ministro del Lavoro del governo Monti volle introdurre, a partire dall’inizio del 2012, il calcolo contributivo pro rata per tutti. Coerentemente Elsa Fornero pensò che – se contributivo deve essere – lo sia fino in fondo e per tutti gli aspetti.

Nel testo iniziale dell’articolo 24 del decreto legge Salva-Italia vennero soppresse un paio di righe (contenute nelle bozze) che avrebbero introdotto una clausola-limite, nel senso che, applicando i nuovi criteri di calcolo, al soggetto interessato fosse precluso di conseguire un trattamento più favorevole rispetto a quelli previgenti (secondo il modello retributivo). Perché – è bene che si sappia – in certe condizioni il sistema contributivo è assai più vantaggioso di quello retributivo. Nel determinare, ad esempio, l’anzianità di servizio utile per la pensione nel primo caso contano tutti gli anni di lavoro e di versamenti; nel secondo è fissato un tetto a 40 anni anche per chi dovesse lavorare più a lungo.

Ovviamente ci sono categorie di lavoratori (l’Inps dice che sarebbero 160mila in un decennio) che hanno approfittato di una norma di legge per loro più favorevole. Hanno fatto qualche cosa di male ? Sembrerebbe di sì visto che – con l’accordo dei ministri Padoan e Poletti – sono stati approvati emendamenti al disegno di legge di stabilità grazie ai quali non solo viene inserita per il futuro (scelta opinabile, ma che rispettiamo) la clausola-limite (a titolo di garanzia) non utilizzata nel 2011; ma dal 2015 verrà tagliato dalla pensione l’eventuale bonus derivante dall’applicazione del calcolo contributivo a chi è già andato in quiescenza. I beneficiari (alti burocrati, docenti, magistrati, in particolare) sono accusati di essere rimasti in servizio proprio per assicurarsi una pensione più elevata.

Il che, in Italia, sembra offendere il comune senso del pudore. In sostanza, da noi, dovrebbero essere puniti non solo i ‘’furbetti’’, ma anche gli ‘’stakanovisti’’: sia quelli (e sono tanti) che una ‘’pensione d’oro’’ l’hanno ottenuta facendo lobby; sia coloro che se la sono guadagnata, alla luce del sole e in modo conforme alle leggi, lavorando più a lungo, con alte retribuzioni grazie a doti di talento, responsabilità e professionalità. Intanto l’on. Maria Luisa Gnecchi, la Zorro delle pensioni degli italiani, ha colpito ancora. Un emendamento a sua firma manomette, fino al 2017, il sistema delle penalizzazioni nel caso di pensionamento anticipato.

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