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Renzi, Fanfani, Ghino di Tacco. Un colloquio virtuale sull’attualità

Quassù abbiamo sempre un po’ di preoccupazione a scambiare qualche opinione con lo spirito di Amintore Fanfani, che ha ereditato intatto dal suo fisico lasciato laggiù quell’aria un po’ troppo professorale: di uno che ti squadra sempre come da una cattedra per darti alla fine un voto, in genere d’insufficienza, anche se accompagnato con qualche battuta d’incoraggiamento a fare meglio la prossima volta.

E’ stato perciò con qualche timore di essere mandato subito a quel paese che l’ho avvicinato per chiedergli se potesse in qualche modo riconoscersi in Matteo Renzi, che molti da voi paragonano appunto a lui per temperamento e per tante altre cose, sino a indicarlo come una specie di sua reincarnazione, magari riuscita fisicamente meglio in altezza.

Non ci crederete, ma la buonanima di Amintore ha gradito l’occasione e si è messo a parlare di buon grado di questo “giovanotto” – ha detto – che “si diverte ad imitarmi”, ma spesso – si è tuttavia affrettato ad aggiungere – “scambiando lucciole per lanterne” e “dando letteralmente i numeri”.

Quali numeri? Gli ho chiesto incuriosito. E lui: “Quelli elettorali, per esempio”. E mi ha spiegato che l’unico elemento in comune fra le elezioni del 1958, da lui vinte con la sua Dc, e quelle di quest’anno, che Renzi e i suoi amici rivendicano di avere in qualche modo uguagliato alle sue nei risultati, sta nel fatto che si è votato nello stesso giorno: il 25 maggio. Tutto il resto non c’entra nulla. E, con la sua aria professorale, si è messo ad elencarmi le differenze.

Le sue – mi ha spiegato – furono elezioni politiche, per il rinnovo delle Camere. Quelle rivendicate a proprio merito da Renzi sono state “solo” elezioni europee, per il rinnovo cioè della rappresentanza italiana in un altro Parlamento. Il suo fu un 42,3 per cento dei voti, e non il 40,8 per cento vantato da Renzi come un traguardo paragonabile solo a quello appunto del 1958 targato Fanfani. Ed era il 42,3 per cento – mi ha voluto precisare il professore – di un elettorato andato alle urne quasi in massa, con un’affluenza del 93 per cento. Ripeto – mi ha detto – del 93 per cento, contro quel misero 52 per cento andato alle urne il 25 maggio scorso. Di che cosa stiamo parlando?, mi ha chiesto. E io francamente non ho saputo rispondergli.

Ma come te – ho avuto ad un certo punto il coraggio di dirgli – Renzi si è messo a guidare il governo conservando la segreteria del partito. “Se è per questo – mi ha risposto – io feci ancora più di lui. Dopo quel successo elettorale mi montai tanto la testa da aggiungere alle cariche di segretario del partito e di presidente del Consiglio anche quella di ministro degli Esteri”. Come forse “il giovanotto” – ho pensato io – avrebbe voluto fare in questi giorni proponendo per la Farnesina, appena liberatasi con le dimissioni della Mogherini, nomi e soluzioni che sapeva indigeste al presidente della Repubblica. Ma piuttosto che dargli anche la carica di ministro degli Esteri, il presidente ha preferito inventarsi e imporgli Pietro Gentiloni.

Il professore con spirito autocritico che francamente mi ha spiazzato, conoscendo la sua ritrosia ad ammettere errori, mi ha detto che quella di fare contemporaneamente il segretario del partito e il presidente del Consiglio – e il ministro degli Esteri, gli ho a questo punto ricordato – fu “una grande fesseria”. Che pagò cara in pochi mesi procurandosi una vera e propria rivolta in un partito che credeva di controllare ormai in tutto e per tutto. E che invece lo stese letteralmente a terra. Salvo ripescarlo, in verità, l’anno dopo, nel 1960, come presidente del Consiglio e dare a Indro Montanelli, un altro toscanaccio di cui prima o dopo vi scriverò, l’idea di chiamarlo “Rieccolo”.

Un soprannome però che non so se Renzi riuscirà a procurarsi pure lui, tanto mi sembra confusa e imprevedibile la vostra situazione, laggiù.

Ghino di Tacco



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