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Chi ha ucciso VeDrò

Caro lettore, a questo punto devo confessarti d’essere stato tra i (pochi, veri e appassionati) fondatori di VeDrò. Puoi immaginare quindi la sensazione di spiazzamento, che ho provato scoprendo in questo modo – dopo 8 anni di iniziative dell’associazione – di esser stato tra gli «acquirenti» del Paese, stando alla teoria dell’onorevole Sibilia. Teoria che tuttavia – non avendo mai chiesto e ottenuto assolutamente nulla dai «compagni», politici e non, di VeDrò – posso smentire con la forza granitica dell’esperienza personale. Ma ricordo molto bene quel pomeriggio, perché nel giro di qualche ora avrò ricevuto una cinquantina di messaggi (tra sms e mail) dedicati alla clamorosa e inattesa «parlamentarizzazione» di VeDrò. Del resto un think tank che diventa oggetto ufficiale di dibattito alla Camera dei Deputati, e addirittura potenziale causa di un voto di sfiducia, era una «prima» assoluta (almeno in Italia). Così a sera cerco di capire quello che è successo davvero e, per non sbagliare, ricorro al Tg di Mentana su La7.

Puntuale arriva il servizio sul «caso VeDrò». «Tra i vari insulti che mi ha rivolto – scandisce in Aula Enrico Letta, rispondendo a muso duro a Sibilia – è difficile trovare dei punti concreti sul Consiglio Europeo. Metà del suo intervento è stato impiegato a parlare di una associazione, VeDrò, che la informo che autonomamente ha deciso di chiudere i battenti, proprio per evitare conflitti d’interesse e perché ci tengo alla trasparenza». Ecco il certificato di morte (innaturale) di VeDrò. La sua «eutanasia di successo», pubblicamente ostentata nel tempio della sovranità popolare. Avrei dovuto stupirmi, ma in realtà non è stato così. Perché due settimane prima guardando (solo a causa della segnalazione d’un amico) su La 7 “La Gabbia” di Paragone, diventata campione assoluto del genere trash-talk, avevo visto insieme a qualche centinaia di migliaia di telespettatori un ampio reportage dedicato a VeDrò che iniziava così: «Qual è il massimo potere in Italia? Il governo. E chi c’è dietro al governo? Un’associazione: politici di sinistra, di destra e di centro, manager e imprenditori. Poteri. Si chiama VeDrò».

In quel surreale servizio avevo avuto perfino l’onore di una citazione, tra i manager «forti» che condizionavano il governo attraverso VeDrò. Ma soprattutto, in quel pezzo c’era tutto ciò che impedisce di creare in Italia serbatoi di pensiero per aiutare l’elaborazione politica: clima da caccia alle streghe e da roghi di piazza, complottismo becero, ricerca disperata (a qualsiasi costo intellettuale) dei leggendari «poteri forti» cui addebitare le pene degli italiani. E in più la malcelata soddisfazione d’aver scoperto, o spacciato per tale, un presunto Bilderberg italiano.

Ancor oggi, molti «vedroidi» avvertono forte la mancanza della loro creatura. È un vuoto di cui parliamo spesso, con dolore e con profonda tristezza. Perché in quel magico appuntamento di fine estate nel «castello» di Drò si scambiavano favori e si negoziavano poltrone all’ombra del potere sovrano del popolo italiano? Direi proprio di no, anche perché chi vuol fare questo può farlo ovunque. La verità è un’altra. Nel 2005 era nato finalmente in Italia, grazie soprattutto all’intuizione e alla determinazione pre-politica di Enrico Letta, un «luogo» innovativo in cui poter formare la classe dirigente dei Quarantenni: cercando e stimolando il confronto tra esperienze, competenze, professioni e culture politiche diverse, mixando riflessioni profonde e cazzeggio conviviale, facendo emergere talenti e passioni. Con alterne fortune e fiumi di appassionate parole, a VeDrò – soprattutto nei primi anni di vita – si era compiuto un «piccolo miracolo» fondato sulla compresenza di 3C di cui le elite italiane sono molto carenti: Contenuti, Contaminazione, Costruzione (di nuove prospettive). E il fatto che VeDrò non esista più è un danno per i 1.000 brillanti «giovani» che lo animavano e per il processo di selezione e formazione delle elite in Italia, non certo per i politici presenti o per le aziende che lo sponsorizzavano con quote modeste.

Caro lettore, non è un caso dunque che alla fatidica domanda iniziale (chi pensa il pensiero politico in Italia?) non ci sia risposta. Perché in Italia manca tradizionalmente un ceto dirigente pubblico e privato che abbia una visione «di sistema»: se esistesse, il lavoro di analisi sulle politiche per il Paese sarebbe considerato (come in usa, uk e Francia) una delle forme più nobili di ricerca, un vero mercato in cui si confrontano le «fabbriche delle idee» sarebbe già nato, le aziende potrebbero finanziare in piena trasparenza e legittimità i think tank che ritengono più meritevoli e i leader politici si affiderebbero alla ricerca sociale e non solo ai sondaggi per capire il Paese e i suoi problemi. Nel nostro Paese, invece, viviamo felici e inconsapevoli senza tutto questo.

Nell’illusione che bastino le riflessioni della Banca d’Italia, le analisi del Censis, le statistiche dell’Istat o addirittura gli studi della cgia di Mestre a sviluppare una vera opinione pubblica in Italia e a far crescere la capacità di mobilitazione cognitiva degli italiani. Dunque ce li meritiamo proprio, quei programmi politici «irresponsabili» (di cui sopra). Perché, come scriveva già 90 anni fa Piero Gobetti ne La Rivoluzione Liberale, «senza conservatori e senza rivoluzionari, l’Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico».

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