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Numeri e drammi della disoccupazione in Italia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Non è vero quello che scrivevano i classici della sociologia francese dell’Ottocento: il tasso dei suicidi varia, eccome, a seconda del ciclo della crisi economica e della “felicità universale”, il mito della Rivoluzione Francese che ha poi generato molti infelici cronici.

Nei primi mesi del 2014 i suicidi sono cresciuti del 59,2%, con 164 casi da gennaio a settembre 2014 di contro a 103 suicidi durante lo stesso periodo dell’anno scorso, 82 uccisioni di sé sono di disoccupati, il doppio rispetto al 2013, mentre gli imprenditori che si uccidono sono 67 tra gennaio e settembre 2014.

I titolari di impresa sono la maggioranza dei suicidi nel Nord Est, area in cui creare un’azienda vuol dire affermarsi dopo, magari, decenni di miseria e mancanza di prospettive, e invece al Sud sono i disoccupati a uccidersi in maggiore quantità.

Il numero dei tentati suicidi è più che raddoppiato da gennaio a settembre 2014, con 89 persone che hanno tentato di uccidersi con motivazioni riguardanti, in linea di massima, la crisi economica.

I tentativi di suicidio sono 131, negli ultimi tre anni, tra i disoccupati, mentre ci sono stati 45 tentativi tra gli imprenditori, 19 tra i lavoratori dipendenti, 5 tra i pensionati.

Un suicidio, quindi, la cifra è strabiliante, ogni 2 giorni e mezzo.

Al primo posto per la causa scatenante dell’atto suicida vi è la mancanza di denaro, oppure una situazione debitoria irrimediabile, con 108 autouccisioni, mentre quelli che si uccidono per debiti verso lo Stato sono ben 13.

E’ vero, peraltro, che la maggiore tendenza media al suicidio è, come ritiene l’ISTAT, lieve, anche nel caso dei suicidi per motivi economici, ma la notizia c’è, i morti sono lì, la causa economica del suicidio in aumento, e questo è un fatto.

C’è una legge, naturalmente, contro i suicidi per crisi, in Italia fanno leggi su ogni cosa, ci manca solo una normativa contro la jella o un dettato legislativo che regoli i ruttini degli infanti.

E’ ovviamente un concordato con i debitori, assistito da un “esperto”, immaginiamo nominato da un Giudice, ma chi vuole togliersi la vita lo fa in un attimo di buia disperazione, non pensa a giudici, avvocati (ed è già un buon motivo per togliersi la vita lo stesso) o a concordati preventivi, anch’essi ottimo motivo per andare via dal mondo.

Ma è l’Italia che si sta suicidando, e non è un mio momento di pessimismo buio a farmelo dire: abbiamo 60 mila imprese che sono state chiuse in 5 anni, un record globale, chiude una azienda ogni trenta minuti.

E meno male che la BCE compra titoli di Stato italiani, in carenza di volontà dei mercati, mentre l’Euro, l’ho calcolato oggi, dovrebbe svalutarsi del 60% per ottenere una svalutazione come quella che avemmo nel 1992, che mise fine all’”Operazione Tangentopoli” e permise la grande stagione delle “liberalizzazioni”, talvolta fatte per favorire nuovi o vecchi partiti politici e strani “imprenditori” che sarebbe meglio chiamare prestanomi.

Nel 2013 hanno chiuso i battenti 14.300 imprese, con un incremento del 14% con record regionali proprio nelle aree di antico sviluppo aziendale: la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Lazio e il Veneto.

I settori più in crisi da chiusura sono il commercio al minuto e l’edilizia, il mito di tutti i seminalfabeti che ripetono a pappagallo la frase di Napoleone III, quand le bâtiment va, tout va, e Napoleone “il Piccolo” aveva distrutto, con il Barone Haussmann, i quartieri medievali di Parigi e le piccole strade di raccordo, creando i boulevards, come notava Walter Benjamin, per evitare che la popolazione mettesse in piedi facili barricate all’ombra della bandiera rossa, il simbolo della Commune.

Nel Mezzogiorno e nelle Isole, che presto saranno totalmente in mano, per l’economia, alla criminalità organizzata, i fallimenti sono saliti del 13%, mentre in Centro Italia e nel Nord Ovest siamo, rispettivamente, secondo i dati CERVED, a 10,4% e a 10,7%.

La deindustrializzazione, il vero spettro di quella che fu la più grande manifattura del mondo, l’Italia, è ormai un dato di fatto.

Sul piano sanitario, come ci fa notare la Relazione sullo Stato Sanitario del Paese, ci informa che sono in netto aumento ansia, malattie croniche e ricoveri sanitari, utili o inutili che siano.

In 10 anni il consumo di antidepressivi è cresciuto di ben quattro volte, ma ci sono dati ISTAT in controtendenza, che vanno studiati bene: tra il 2010 e il 2013, il 51% delle imprese ha aumentato il proprio fatturato, mentre il 39% delle imprese del manifatturiero ha incrementato le vendite sul mercato interno, con, invece, ben il 61% delle aziende ha accresciuto il fatturato sul mercato internazionale.

Si tratta, quindi, di una cattiva gestione della trasformazione produttiva e strategica del mercato-mondo quella che ha portato alla autodistruzione suicida di tanti imprenditori.

Le imprese perdenti, ce lo dice l’ISTAT, tendono a riformulare in piccolo la loro attività, mentre quelle vincenti sono caratterizzate da forti investimenti in “capitale umano” e attività innovative.

Bene, cosa vuol dire tutto ciò? Semplice: che le aziende italiane piccole, medie, grandi sono state lasciate senza una guida politica e finanziaria che permettesse loro di muoversi agevolmente nella configurazione post-2008 del mercato globale.

Non si tratta di essere “liberali” e lasciare che il mondo produttivo faccia tutto da solo: si tratta di essere fessi, perché ogni falla lasciata dal nostro sistema d’impresa viene coperta, in men che non si dica, da concorrenti esteri che, loro sì, hanno una classe dirigente e politica all’altezza della situazione.

Non si tratta, poi, di “trasformare in manager” gli ambasciatori, come sembra vada di moda all’Istituto Diplomatico, ma di far fare al diplomatico il suo vero mestiere, che non è il piazzista, ma il protettore politico e strategico di accordi di impresa che sanno fare gli altri, i manager veri.

Il mito del politico e del diplomatico con la valigetta rigida, inventato da Silvio Berlusconi al governo, è proseguito nei governi di altro colore, e oggi siamo a utilizzare rappresentanti politici per “fare azienda”, mentre spostiamo all’estero lavorazioni che sarebbe strategico mantenere in Patria, e lasciamo in Patria attività che sarebbe bene, sempre con la proprietà italiana, spedire fuori confine.

Manca, sovrana su tutte, la politica industriale, un’idea economica di Paese, che non è il mito dello sviluppo, ma la crescita regolata in quello o in quell’altro settore.

Ci siamo fatti fregare l’agroindustriale da leggi UE pensate contro di noi e poi votate allegramente dai nostri parlamentari europei, ci stanno fregando le imprese artigianali alto di gamma, che potrebbero contribuire alla crescita dell’export come poche, stiamo perdendo perfino il turismo, lasciato alla buona volontà di pochi imprenditori illuminati.

La crisi è, quindi, basata sulla incapacità della nostra classe politica, centrale e regionale, e dovrà passare di lì il vero rinnovamento dell’economia e della global strategy italiana.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”

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