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Emilia Romagna e Calabria, le vere sfide istituzionali delle giunte Bonaccini e Oliverio

Due regioni (Emilia-Romagna e Calabria) appena andate al voto per scegliere i nuovi governatori. Due Regioni di cultura amministrativa diversa e, conseguentemente, con differenti ricadute in termini di prodotto legislativo, programmatorio e amministrativo. Due regioni con problemi e storie non affatto uguali. Due regioni, per alcuni versi, “invase” dalla ‘ndrangheta, che in una nasce e vegeta e nell’altra pare stia sopravvenendo prepotentemente, attratta dalla ricchezza. La stessa che ha fatto sì che l’insaziabile organizzazione malavitosa, nel suo tentativo di schiavizzare economicamente ovunque, iniziasse a rendersi protagonista nel resto del Paese, a cominciare dagli esiti del terremoto di L’Aquila per passare dall’Expò e finire a ciò che sta facendo perdere credibilità alla Capitale d’Italia.

Due Regioni che dovranno impegnarsi ad elaborare presto i programmi di governo, che ancora non ci sono, e dunque a misurarsi con quelli che – si auspica – saranno sviluppati e proposti preventivamente al rispettivo elettorato ad opera delle sette regioni (Liguria, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia) che, di qui a non molto (primavera 2015), andranno al voto.

Non solo. Sarà importante per entrambe le Regioni, in procinto di darsi gli Esecutivi, predisporre un meticoloso e credibile “progetto industriale” quinquennale, attraverso il quale prevedere la riorganizzazione degli assetti burocratici, sì da renderli più funzionali alla immediata correzione delle defaillance del passato e alla ottimizzazione delle rispettive performance del futuro

Anche qui, sensibili differenze, con una Emilia-Romagna che dovrà semplicemente affinare ciò che fa da decenni e una Calabria che avrà il dovere di rifondare la macchina regionale, nelle sue diverse espressioni funzionali. Dovrà imparare a fare (finalmente) buone leggi, abdicando al ruolo di campione delle norme falcidiate dalla Consulta, a programmare correttamente, specie l’utilizzo dei Fondi comunitari, e ad assumere provvedimenti amministrativi degni di nota e pieni zeppi di legalità.

A ben vedere, una partenza asimmetrica, nei confronti della quale il Partito democratico deve mantenere, attraverso i suoi rappresentanti istituzionali, le sue promesse di rinnovamento e di efficienza, indispensabili per rigirare, pro quota, il Paese come un calzino. Non riuscire in questo intento, significherebbe il fallimento del governo presieduto da Matteo Renzi, che sta dimostrando al centro ciò che ci si augura sappia imporre anche nella “periferia” regionale e locale. Quella parte essenziale della Repubblica che entra di più nelle case dei cittadini, che gli hanno riconosciuto il consenso, provocando loro danni inimmaginabili sul piano della esigibilità dei diritti di cittadinanza.

Una tale situazione va correttamente sopravvalutata rispetto a quanto si vede oggi in giro, ove si continua ad agire come i vecchi tempi. Stanze chiuse per decidere, poca la collaborazione per definire obiettivi da raggiungere e metodologie che siano organiche al rinnovamento, nessuna exit stategy dai commissariamenti che in Calabria incombono in settori decisivi (sanità, dissesto idrogeologico e acqua). Nessun peso ai neo-impegni derivanti dalla Costituzione novellata e da un Fiscal compact che, se continuerà ad essere così com’è, imporrà alle Regioni – quali componenti essenziali del bilancio della Repubblica – adempimenti sino ad oggi neppure inventariati. Sarà oneroso il rispetto del neo-introdotto principio di concorso obbligatorio degli enti territoriali all’equilibrio di bilancio. Allo stesso modo sarà difficilissimo l’esercizio della regia regionale da garantire – ai sensi dell’art. 10 della legge 243/2012 attuativo dell’art. 119 della Costituzione, comma 6, secondo periodo –  ai fini degli investimenti da effettuare da parte di Regioni ed enti locali indispensabili per ottimizzare la PA decentrata e garantire la crescita dei rispettivi PIL .

Il tutto, in linea con la revisione costituzionale che farà del vecchio Senato della Repubblica il Senato delle Autonomie e, con esso, renderà (finalmente) desueto il sistema concertativo fondato sulle inutili conferenze.

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