Mosca ha minacciato di rinunciare al gasdotto South Stream. Una scelta che riguarda da vicino l’Europa e l’Italia, impegnata con Saipem, controllata Eni, nella realizzazione dell’infrastruttura.
Dove guarderà ora la Russia? Quali gli effetti pratici e geopolitici per il nostro Paese e il Vecchio Continente? E da cosa nasce questo annuncio?
Ecco l’opinione dello storico ed economista Giulio Sapelli, dal 1996 al 2002 nel cda del Cane a sei zampe, dal 1994 ricercatore emerito presso la Fondazione Eni Enrico Mattei.
Professore, perché Putin ha annunciato di voler far saltare South stream?
Il presidente russo critica l’atteggiamento e la mancanza di volontà dell’Ue di sostenere il gasdotto. In particolare ce l’ha con tutti gli ostacoli che Bruxelles ha posto sul cammino dell’infrastruttura. Aspetti sui quali non ha tutti i torti. Stupisce che l’abbia fatto ora. Un po’ a causa della caduta del prezzo del petrolio, che lo penalizza. Ma soprattutto perché il nodo vero, in realtà, rimane quello delle sanzioni. La Russia non accetta che l’Europa gli volti così le spalle. Ed ha quindi deciso di puntare altrove e di lanciare un segnale al Vecchio continente.
Quali sono le alternative della Russia?
Non è un caso che Putin abbia annunciato in Turchia che intende rinunciare a South Stream. Il presidente russo punta molto sull’intesa con Erdogan per un aumento delle forniture ad Ankara, pari a 3 miliardi di metri cubici, attraverso il gasdotto Blue Stream. Ha poi detto che intende sviluppare un nuovo gasdotto lungo il confine greco-turco destinato ai soli consumatori del sud Europa. Si tratta di un passo molto importante, perché la Turchia e la Russia sono divisi su molti dossier, come la Siria. Mosca sostiene Assad, Ankara considera il regime un nemico da abbattere. Divergenze messe da parte in nome di un reciproco beneficio. Ma tutto ciò non è sufficiente per superare un problema di fondo. Putin è in forte difficoltà, perché ora il rapporto con un altro cliente ingombrante, la Cina, che la Russia ha finora definito “strategico”, diventa sempre più un rapporto di dipendenza.
Quali sono, invece, gli effetti per l’Italia?
Il riflesso maggiore è quello dei mancati introiti di Saipem. Va detto, però, che nel tempo South stream è costato un’alta perdita di valore. È diventato sempre più un progetto per costruire tubi e sempre meno un’infrastuttura per trasportare petrolio, visti i lunghi tempi di realizzazione. Ciò a fronte di moltissimi problemi tecnici e politici.
Nel suo ultimo pamphlet “Dove va il mondo” (edizione Guerini), lei contesta la visione dominante di un futuro asiatico, spiegando che il vero motore della crescita sarà piuttosto l’Africa. Crede che, col tempo, il baricentro di Eni si sposterà a sud?
Penso proprio di sì. In primo luogo, e non è un dettaglio secondario, il sottosuolo africano offre maggiori garanzie dal punto di vista della tenuta infrastrutturale. Inoltre, con l’Africa, Eni ha da tempo un rapporto speciale. In quel continente ci sono ancora stazioni di servizio del Cane a sei zampe risalenti all’era Mattei. In fondo sarebbe un ritorno a quello che già lo storico presidente aveva in mente, ovvero un’idea ottimistica di rinascimento africano. L’archiviazione di South stream potrebbe rivelarsi, tutto sommato, una grande opportunità.
Riguardo a South Stream, nelle scorse settimane lo stesso Descalzi aveva tracciato una linea oltre la quale non andare. Crede che questa notizia sia un passo ulteriore verso la Eni del nuovo ad?
Sicuramente. Descalzi intende trasformare l’Eni da compagnia domestica a una big. Per farlo dovrà puntare sempre meno sulle infrastrutture di Saipem, concentrando investimenti e attività sull’estrazione. Se nel giro di sei anni il Cane a sei zampe sarà in grado di raccogliere intorno ai 2 milioni e mezzo di barili al giorno, tutto cambierà. Questa è una strategia che, personalmente condivido. Il modello da seguire deve essere quello dei grandi gruppi, come Esso, che non sprecano energie su piccoli problemi locali, ma sono proiettati su un mercato globale.