Il prezzo del petrolio è crollato di più del 25% negli ultimi cinque mesi, dando vita a un piccolo “terremoto” economico e geopolitico, dalle conseguenze ancora incerte.
IL CROLLO DEL GREGGIO
Un po’ di numeri. Sulla scia del mancato taglio delle quote produttive dell’Opec, deciso al recente vertice di Vienna, il calo del valore della materia prima appare costante. Stamane, sul circuito elettronico i future sul Light crude arretrano di 2,09 dollari a 64,06 dollari, dopo un minimo dal luglio 2009 di 63,72 dollari e quelli sul Brent cedono 2,20 dollari a 67,96 dollari, dopo un minimo da ottobre 2009 di 67,82 dollari.
LE PERDITE DELLE BIG OIL [INFOGRAFICA]
Gli effetti di questo collasso sono stati pressoché immediati. Negli ultimi tre giorni, mette nero su bianco il Wall Street Journal (sotto l’infografica), le 10 più importanti compagnie petrolifere, tra le quali le cosiddette “big oil”, hanno registrato perdite pari a 75 miliardi di dollari.
(fonte: Wall Street Journal)
CHI PAGA LA CRISI
Questi dati allarmano in parte del compagnie del settore, ma l’occhio dei governanti è rivolto soprattutto alle loro conseguenze politiche. A perdere di più col calo dei prezzi del petrolio, sottolinea Martin Feldstein in un commento pubblicato su Project Syndacate, “sono molti Paesi che non sono amici degli Stati Uniti e dei suoi alleati, come Venezuela, Iran e Russia“. Questi Stati – rileva l’economista conservatore, docente ad Harvard e in passato con incarichi di alto profilo nelle presidenze Reagan e George W. Bush – sono “fortemente dipendenti dai proventi del petrolio per sostenere la spesa dei loro governi“. Anche con la materia prima “a 75 o 80 dollari al barile“, questi Paesi “avranno difficoltà a finanziare i programmi populisti di cui hanno bisogno per mantenere il sostegno pubblico“.
ALLARME A MOSCA (E NON SOLO)
Un ulteriore calo del prezzo del petrolio, avverte Feldstein, “creerebbe gravi problemi a Mosca in particolare“, minando il consenso alla leadership di Vladimir Putin (che invece lo scorso 28 novembre, a Sochi, si è detto convinto che ci penserà l’arrivo dell’inverno a riequilibrare il mercato). Malgrado l’ottimismo del presidente russo, un primo effetto negativo c’è già: il rublo, come spiega Business Insider, è ai suoi minimi storici, debole come non mai. Un dato che, sommato a quello delle sanzioni derivanti dalla crisi ucraina, creerebbe per il Cremlino un problema difficilmente aggirabile. Ma ci sarebbero conseguenze simili a Teheran, che negozia con le potenze del gruppo 5+1 l’abbandono del suo programma nucleare, e Caracas, che ha da tempo rapporti tesi con Washington.
E se per ciò che riguarda l’Iran, Suzanne Maloney, senior fellow di Brookings Institution, rimarca che il calo del prezzo del petrolio è solo un ulteriore peggioramento di una situazione già insostenibile, su Bloomberg, Francisco Rodriguez, economista di Bank of America Merrill Lynch, pensa che in Venezuela il governo sarà costretto a prendere pesanti misure economiche per evitare il default e possibili nuove rivolte.
LE ECCEZIONI DEL GOLFO
Meno colpite del previsto, sottolinea ancora Feldstein, saranno le economie dell’Arabia Saudita e di molti dei Paesi del Golfo. Pur essendo importanti esportatori di petrolio, questi si distinguono da altri produttori in “due aspetti importanti“. Innanzitutto, il loro “costo di estrazione di petrolio è estremamente basso“, il che significa che essi saranno in grado di produrre con profitto al prezzo corrente – o anche a un prezzo molto inferiore. In secondo luogo, “le loro enormi riserve finanziarie consentono loro di finanziare le loro attività nazionali e internazionali per un periodo di tempo prolungato“, e nel frattempo “cercano di trasformare le loro economie per ridurre la loro dipendenza dalle entrate petrolifere“.
IL VANTAGGIO AMERICANO
La scelta dei Paesi produttori del Golfo di non tagliare i prezzi, sottolinea Vox, nasce soprattutto dalla volontà di tagliare fuori dalla concorrenza gli Stati Uniti, che con la rivoluzione dello shale oil si sono trasformati in pochi anni da Paese importatore a nuovo player dell’esportazione di energia. Un calo troppo robusto dei prezzi, infatti, porrebbe fuori mercato il petrolio di scisto, più costoso a causa degli alti costi di estrazione.
Ma, paradossalmente, potrebbero essere proprio gli Usa i vincitori di questo stato di crisi energetica. Il basso prezzo del petrolio implica maggiori redditi reali per i consumatori americani (e per lo stesso motivo, dà anche una spinta alla domanda aggregata in Europa, Asia, e in altre regioni che importano petrolio).
Una manna per Washington, per la quale questo elemento, unito a un indebolimento dell’economia mondiale, potrebbe corrispondere, secondo l’Economist, a un nuovo periodo dorato.