“Due Popoli, due Stati”. E’ attorno a questo mantra, che da più di sessantacinque anni assilla le diplomazie di mezzo mondo, che in questi giorni ruota l’attivismo di capi di Stato, ambasciatori e ministri di tre continenti. L’incontro a Roma tra Benjamin Netanyahu, John Kerry e il nostro premier Matteo Renzi rientra in questo quadro.
L’occasione deriva dal fatto che all’inizio di dicembre la Giordania aveva fatto circolare tra i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu una bozza di risoluzione preparata dai palestinesi dove, tra l’altro, si richiede a Israele il ritiro dai territori occupati, la cessazione delle costruzioni per i coloni ed il ritiro definitivo, entro il 2016, nei i confini precedenti alla guerra del 1967. Una bomba che, anche se non è destinata a produrre effetti concreti nell’immediato, in ogni caso non è certo utile per ammorbidire la tesissima atmosfera che sempre si avverte nell’area. Tanto che sulla risoluzione hanno già manifestato forte perplessità alcuni Paesi europei (ma non l’Unione Europea), che avrebbero elaborato una bozza di risoluzione alternativa. Inutile dirlo, si tratta di Germania, Gran Bretagna e Francia. La discussione, a meno di cambio di calendario all’ultimo momento, inizierebbe a Palazzo di Vetro oggi stesso.
Benjamin Netanyahu ha buoni motivi per essere preoccupato. Fino a marzo prossimo sarà in campagna elettorale, con la destra di Lieberman e quella confessionale che rischiano di erodere al suo partito un buon numero di voti. Quindi, anche se non è preoccupato degli effetti pratici dell’eventuale risoluzione, si trova nella necessità – e ancor più dopo il recente attentato alla scuola rabbinica – di mostrare ai suoi un’inflessibile rigidità nei confronti dell’Anp e di Abu Mazen. Lo preoccupa anche l’effetto alone del contesto europeo, considerato che dopo l’operazione “Margine Protettivo” a Gaza alcuni parlamenti europei – ma solo la Svezia lo ha fatto ufficialmente – si siano mossi verso un simbolico riconoscimento dello Stato di Palestina. Tra questi si enumerano Portogallo, Spagna, Francia, Regno Unito e Irlanda, mentre l’Italia sinora non si è espressa. Come già l’egiziano al-Sisi, la lotta al terrorismo (ognuno dà a questa il significato che gli conviene), anche per il premier israeliano è una carta da giocare con successo. Con questo fardello sulle spalle, si è presentato a Roma spiegando che “…Israele non si ritirerà mai dai Territori occupati” e che “…confida nel supporto di Stati Uniti ed Italia”.
Kerry, nel frattempo, continua a fare la trottola e, pieno di buona volontà, anche lui si è presentato a Roma reduce dall’Arabia Saudita e dopo aver avuto, la sera precedente, uno scambio di vedute con il ministro degli esteri russo Lavrov. Dopo un incontro di tre ore con Netanyahu a villa Taverna, residenza dell’ambasciatore John Phillips, il segretario di Stato ha subito ripreso il volo verso Londra, per incontrare una delegazione palestinese guidata dal capo negoziatore Erekat e dal segretario generale della Lega Araba Nabil al-Arabi, visto che ogni accordo con il premier Cameron sicuramente era già stato preso in precedenza. Al Palazzo di Vetro gli Stati Uniti potrebbero porre il veto, come vorrebbe ovviamente Netanyahu, oppure cercare di rimandare il voto mediando una bozza di accordo sul documento predisposto da Germania, Francia e Gran Bretagna. Mentre il veto, ultima ratio, per Kerry equivarrebbe ad una sorta di sconfitta, l’accettazione di una soluzione mediata potrebbe forse essere il suo primo, misero successo.
Ma, almeno, la serie di record negativi che la diplomazia obamiana è riuscita a raccogliere durante il suo mandato verrebbe finalmente interrotta.