Dopo due settimane di negoziati e ben trentadue ore di ritardo rispetto al termine dei lavori, i negoziatori delle 196 nazioni riuniti a Lima hanno raggiunto un accordo a cui il ministro peruviano Pulgar Vidal ha attribuito l’evocativo nome di “Lima Call for Climate Action”. Perché è proprio dalla capitale peruviana che inizia il percorso che dovrebbe portare all’approvazione del nuovo accordo globale contro i cambiamenti climatici al vertice di Parigi del prossimo anno.
A Lima si doveva definire la cornice dentro la quale comporre il complesso puzzle dei piani nazionali per la riduzione delle emissioni che costituiranno le basi per l’accordo finale del 2015 e che entrerà in vigore a partire dal 2020. Tuttavia, a dispetto dell’entusiasmo iniziale dovuto anche alla recente dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Cina, che per la prima volta hanno accettato un impegno sulla riduzione progressiva delle emissioni, i negoziati sono stati estenuanti e i progressi lenti. Sui risultati complessivi ha pesato molto negativamente l’annoso conflitto tra Paesi Industrializzati e Paesi in via di sviluppo, con questi ultimi impegnati ad accusare le nazioni più ricche di sfuggire alle proprie responsabilità nel sostenere i costi dell’impatto provocato dal riscaldamento globale.
Uno dei punti fondamentali sulla strada del futuro accordo di Parigi sarà la richiesta a tutti i Paesi di sottoporre alle Nazioni Unite i propri piani per la riduzione dei gas serra entro il 31 marzo 2015: i cosiddetti contributi nazionali (Intended NationallyDetermined Contributions). E tuttavia tali piani di riduzione potranno essere presentati anche in forma generica senza fornire particolari dettagli e senza la previsione di un meccanismo di “review” per comparare i piani di riduzione di ciascun Paese: come era stato richiesto dell’UE ma come poi è stato rifiutato dalla Cina e da altri Paesi Emergenti.
Il testo dell’accordo prevede inoltre che tali piani nazionali “possano includere” alcuni dettagli come gli obiettivi di riduzione “anno per anno”: una formulazione, questa, molto più debole di quella contenuta in una bozza iniziale nella quale si affermava che i vari Paesi avrebbero dovuto obbligatoriamente contenere tali dettagli. Una volta definiti, gli obiettivi nazionali, verranno pubblicati on line del Segretariato delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico, che entro il 1 novembre del 2015 dovrà predisporre un rapporto sugli effetti complessivi che i piani nazionali avranno nel rallentare il global warming.
Il testo dell’accordo si rivolge indistintamente a tutti gli Stati nell’appello a combattere il riscaldamento globale, eliminando di fatto la distinzione introdotta fin dalla Conferenza mondiale del 1992 tra Paesi ricchi e Paesi poveri: una distinzione che attribuiva storicamente maggiore responsabilità ai paesi ricchi nel cambiamento climatico.
Molte economie emergenti, come ad esempio l’India, hanno insistito sull’esigenza di mantenere chiara quella distinzione ma gli Stati Uniti e molti Paesi sviluppati hanno invece sottolineato il fatto che il mondo nel frattempo è cambiato e che dunque anche i Paesi in via di Sviluppo hanno il dovere di ridurre le loro emissioni sempre crescenti. La formula diplomatica che è stata trovata per risolvere questo conflitto si riferisce a “responsabilità comuni ma differenziate, e capacità (di riduzioni delle emissioni) diverse legate alle diverse caratteristiche nazionali”.
Per quanto riguarda la parte relativa alla finanza del clima, le donazioni al GFC (Green Climate Fund – Fondo Verde per il Clima) rivolte a sostenere i Paesi in via di sviluppo nelle loro attività di riduzione dei gas serra e di adattamento al cambiamento climatico hanno superato sebbene di poco l’obiettivo di dieci miliardi di dollari stabilito dalle Nazioni Unite, grazie ai contributi finali venuti dall’Australia e dal Belgio.
La conferenza di Lima ha definito come obiettivo che i Paesi sviluppati raccolgano 100 miliardi l’anno di qui al 2020 con la mobilitazione di fondi privati e pubblici per sostenere le azioni di contrasto al cambiamento climatico nei Paesi in via di Sviluppo.
I Paesi in via di Sviluppo avrebbero voluto che i Paesi industrializzati definissero un calendario preciso e dettagliato “anno per anno” per raggiungere questo obiettivo. Tuttavia il testo si limita a richiedere che i Paesi sviluppati “accentuino gli elementi qualitativi e quantitativi del percorso” che condurrà al 2020.
Il negoziato ha approvato un documento di 37 pagine sugli “elementi” che costituiranno la base del testo da discutere a Parigi l’anno prossimo e tuttavia questo documento presenta un ventaglio di alternative molto ampio. Ad esempio, da una parte si ipotizza che l’obiettivo di lungo periodo nella riduzione delle emissioni di gas serra sia “zero emissioni” entro il 2050: un obiettivo che di fatto implica un abbattimento radicale già nei prossimi anni nell’utilizzo dei combustibili fossili. Ma dall’altra, nella stessa sezione del documento, si ipotizza che ci si potrebbe limitare a “strategie di sviluppo a basse emissioni”.
Infine per quanto riguarda il capitolo “loss and damage” e cioè le perdite e i danni provocati dai cambiamenti climatici, i Paesi in via di sviluppo (che sono più vulnerabili e i più esposti alle conseguenze del riscaldamento globale) sono riusciti ad includere nel documento un riferimento alle compensazioni (ad esempio i risarcimenti per i danni provocati dai tifoni) nonostante l’opposizione degli Stati Uniti.
Il countdown per Parigi è iniziato. Ora tocca agli Stati nazionali utilizzare al meglio il tempo che ci separa dalla COP di Parigi per semplificare il testo della bozza di accordo e trovare il modo per andare avanti su questioni in cui permangono differenze tra le Parti.
Foto: LimaCop20/Twitter