Più trasmettono, fra telegiornali e serate o pomeriggi d’intrattenimento, quel video sull’arresto di Massimo Carminati, bloccato con la sua auto, dove viaggiavano anche una donna e un bambino, tra grida e mitra da uomini in assetto di guerra, peraltro in una stretta strada di campagna dalla quale era chiaramente impossibile ogni tentativo di fuga, o reazione armata del ricercato perché a rischio della incolumità dei familiari, più viene da chiedersi perché mai si debba danneggiare così clamorosamente un’operazione giudiziaria tanto importante come quella denominata, a torto o a ragione, “Mafia Capitale”.
Quell’eccesso evidente di forza, quel gratuito esibizionismo, ha procurato e procura agli inquirenti un danno enorme. E consente ad un poco di buono come Carminati, con tutti quei soprannomi che si porta meritatamente appresso, accomunati in anni di attività illegali, di levare dalla sua cella proteste – ahimè – condivisibili. A contestare le quali si compromettono civiltà e buon senso.
In un Paese normale i responsabili di quel video, presumibilmente girato non per ragioni di archivio ma per essere diffuso, com’è diligentemente avvenuto, sarebbero stati rimossi seduta stante: responsabili di ogni ordine e grado, seduti dietro una scrivania sia di caserma sia di tribunale.
La civiltà giuridica viene non difesa ma offesa da spettacoli del genere, da un uso così disinvolto e autolesionistico del potere dello Stato, in un’assurda competizione con le smargiassate telefoniche dei protagonisti di questa mafia alla vaccinara che è stata finalmente smascherata. E che si spera destinata a non uscire dai processi senza danni, o quasi, per il solito rotto della cuffia: tra errori nelle indagini, mancati riscontri, prescrizioni ed altri accidenti.
Ha arrecato danno alle indagini anche il fatto che un magistrato d’indubbia esperienza com’è sicuramente il capo della Procura della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, ne abbia parlato, sia pure allusivamente, in un incontro pubblico e politico, mentre negli uffici giudiziari si predisponevano arresti e perquisizioni. E si spillavano atti comprensivi di migliaia di pagine di trascrizioni di intercettazioni telefoniche e ambientali destinate al solito, prevedibile, polverone. Nel quale, per esempio, la Procura ha dovuto ad un certo punto intervenire per precisare di non avere trovato conferme alla storia, raccontata da uno degli intercettati, delle “valige” di soldi sporchi portate dall’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno in Argentina sfuggendo ai controlli aereoportuali.
E’ un polverone, quello solito delle intercettazioni diffuse a mezzo giudiziario prima e contro ogni riscontro, in cui può capitare a chiunque di finire sputtanato del tutto ingiustamente, e non solo più del dovuto. A poco serve consolarsi politicamente con il fatto che a subirne i danni sono stavolta uomini e donne di destra ma anche di sinistra, o viceversa, come preferite. O che, diversamente dalla Tangentopoli di una ventina d’anni fa, ora le cooperative rosse rischiano di non avere sconti nel trattamento giudiziario e mediatico.
Lo spettacolo resta ugualmente odioso. E c’è il pericolo di trasformare ancora una volta una buona occasione di pulizia in una cattiva operazione di disinformazione. O di altro ancora.