A dispetto della sicurezza politica, a tratti persino minacciosa, che ostenta in pubblico e che si è imposta anche per la conferenza stampa di fine anno, Matteo Renzi ha un incubo: la candidatura di Romano Prodi al Quirinale. Un incubo cui lui stesso per eccesso di furbizia e di tattica, allo scopo di tenersi buona la minoranza del suo partito, ha contribuito ricevendo di recente Prodi a Palazzo Chigi in pompa magna. E poi raccomandando di non farne troppo il nome come successore di Giorgio Napolitano per evitargli di finire nel rovinoso “tritacarne” delle scommesse e delle manovre della lunga vigilia delle votazioni parlamentari.
Quando ha voluto dare l’impressione di non temere, o addirittura di essere disposto a favorire, l’elezione di Prodi il capo del governo e del Pd aveva come punto stabile di riferimento l’indisponibilità di Silvio Berlusconi a dare via libera in questo senso ai gruppi parlamentari di Forza Italia. Una indisponibilità utile a Renzi per motivare agli occhi della sinistra interna al proprio partito, ultraprodiana, una scelta verso altri nomi per non compromettere il percorso delle riforme istituzionali, e il relativo clima politico, avviato con il famoso e più volte rinnovato “patto del Nazareno” con il leader di Forza Italia.
Grande pertanto è stata la preoccupazione di Renzi quando il giornale La Repubblica ha vistosamente annunciato una svolta filoprodiana di Berlusconi raccogliendo, in particolare, gli umori e i “retroscena” giornalistici che Augusto Minzolini, l’ex “direttorissimo” del Tg1, come lo chiamava l’ancora Cavaliere prima di portarlo al Senato, continua a raccontare o alimentare con spirito dichiaratamente antirenziano.
Senza il veto o una forte resistenza di Berlusconi, si è detto giustamente Renzi, la corsa di Prodi al Quirinale non sarebbe più in salita ma in discesa. E con uno come Prodi al Quirinale, con la sua personalità, i suoi umori, la sua ostinazione, i sassolini e sassi da togliere dalle scarpe, i suoi rapporti internazionali, la sua competenza in un campo tanto strategico quanto caldo dell’economia, il presidente del Consiglio non potrebbe dare nulla per scontato o facile nella propria azione di governo. C’è francamente da capirlo.
Fra i sassolini e sassi di Prodi ci sono probabilmente anche i contributi attribuiti, a torto o a ragione, agli amici parlamentari di Renzi nella rivolta decisiva dei 101 e più “franchi tiratori” del Pd nelle elezioni presidenziali del 2013 contro la candidatura del professore emiliano, messa in campo in tutta fretta e confusione dall’allora segretario del partito Pier Luigi Bersani. Al di là comunque della partecipazione o meno dei renziani alla rivolta dei “franchi tiratori”, risultò quanto meno sospetta la fretta con la quale il rottamatore Renzi in persona dalla postazione ufficiale, allora, di sindaco di Firenze liquidò al primo colpo la partita di Prodi, senza aprire a ulteriori tentativi, che pure sarebbero stati possibili, essendosi svolta su di lui solo una votazione, la quarta in ordine cronologico e la prima a maggioranza assoluta della serie poi conclusa con la rielezione di Napolitano.
Dal fronte berlusconiano, dopo la presunta svolta annunciata dalla Repubblica, sono arrivate smentite e precisazioni, fra gli altri dal capogruppo al Senato Paolo Romani e dal consigliere politico Giovanni Toti, da cui Prodi è tornato ad essere o apparire come la persona meno giusta o adatta al Quirinale. Ma Renzi, consapevole della imprevedibilità dell’ex Cavaliere, e della pericolosità di compromettersi tanto da sollecitare per i soliti canali una esplicita puntualizzazione di Berlusconi in persona, è rimasto sulle spine. Lo ha, fra l’altro, allarmato una sortita filo-prodiana, sul giornale di Antonio Padellaro e Marco Travaglio, di un berlusconiano del giro stretto come Carlo Rossella, convinto che una pace vera possa e debba essere fatta solo fra nemici veri, quali sono stati per una ventina d’anni e in fondo continuano ad essere Berlusconi e Prodi.
Può tuttavia consolare il presidente del Consiglio il fatto che altre volte, nelle corse al Quirinale, Berlusconi è sembrato subire dagli amici più stretti, per esempio Giuliano Ferrara, pressioni a favore di candidati forti del campo avverso come Massimo D’Alema. Col quale però l’allora Cavaliere si sentì solo di fare una commissione bicamerale, poi abortita, per le riforme costituzionali. Nient’altro di più. Lo trattenne poi, sulla strada del Quirinale, la paura di una scelta troppo indigesta per il proprio elettorato, che peraltro da allora si è molto ristretto. Procurargli altre sorprese potrebbe essere troppo avventato.