Non c’è la clausola dell’opting out per cancellare del tutto il reintegro (come auspicava il Nuovo Centrodestra confluito con l’Udc e parte di Scelta Civica nel gruppo Area Popolare). Il reintegro viene limitato nei licenziamenti disciplinari alla sola insussistenza del fatto materiale. E la riscrittura dell’articolo 18 interesserà anche i licenziamenti collettivi.
Non solo: le nuove regole varranno anche per partiti, sindacati e aziende sotto i 15 dipendenti con alcuni correttivi (indennizzi dimezzati. Altra novità: se l’impresa supera il limite dei 15 dipendenti, il neo assunto sarà a tutele crescenti e trascinerà con sé nel nuovo regime anche gli altri dipendenti.
Sono queste alcune delle innovazioni contenute dei decreti delegati approvati il 24 dal consiglio dei ministri e ancora ora oggetto di discussioni tecniche e diatribe politiche. Ma riforma e decreti non valgono per i dipendenti statali (ecco perché, come ha spiegato Giuliano Cazzola su Formiche.net); se ne riparlerà (forse) con la riforma della Pubblica amministrazione in discussione in Parlamento, ha detto ieri Matteo Renzi nel corso della conferenza stampa di fine anno.
Entriamo ancor più nei dettagli dei decreti.
Il reintegro nel posto di lavoro con il risarcimento del danno resta per i licenziamenti discriminatori o che si richiamano alla giusta causa, in cui viene dimostrata l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore. Fermo restando il diritto al risarcimento, quest’ultimo può chiedere, al posto del reintegro, un’indennità pari a 15 mesi di retribuzione.
Nei casi in cui il licenziamento per giustificato motivo, oggettivo o soggettivo, è infondato, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore al pagamento di un’indennità (non soggetta a contribuzione) di importo pari a 2 mensilità per ogni anno di lavoro, da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità. Se emerge la prova diretta dell’insussistenza dei fatti contestati, il giudice annulla il licenziamento, condanna al reintegro e al pagamento di un’indennità risarcitoria.
Nel caso di un licenziamento dichiarato illegittimo per vizi formali o procedurali il rapporto di lavoro viene estinto ed il datore di lavoro condannato al pagamento di un’indennità pari a un mese per ogni anno di servizio, da un minimo di due a un massimo di dieci mensilità. Le nuove norme valgono anche per i licenziamenti collettivi dichiarati illegittimi per vizi di procedura.
E ora approfondiamo le singole novità nelle tipologie dei licenziamenti grazie alle analisi del Sole 24 Ore curate da Claudio Tucci.
La legge Fornero, nel 2012, aveva modificato l’articolo 18 mantenendo il reintegro, nei licenziamenti economici, nel caso di manifesta insussistenza del fatto posto alla base dell’atto di recesso. Oggi il governo, varando il Dlgs con la nuova normativa sul contratto a tutele crescenti, cancella anche questa previsione nei licenziamenti per motivi economici e organizzativi. E quindi, se tali licenziamenti sono illegittimi, scompare per sempre la tutela reale, che lascia il posto a un ristoro economico, certo e crescente con l’anzianità di servizio del lavoratore. La nuova normativa è piuttosto chiara. Se non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (quindi le ragioni economiche) il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna l’imprenditore al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio fino a un massimo di 24 mensilità. Questo significa che dopo il 12esimo anno di anzianità lavorativa al dipendente licenziato (illegittimamente) verrà corrisposto comunque un indennizzo massimo di 24 mensilità. Il braccio di ferro all’interno della maggioranza ha portato ad aumentare da 1,5 a due mensilità per anno di servizio l’indennizzo-base; e poi, per evitare licenziamenti facili nella prima fase del rapporto, è stato introdotto anche un indennizzo minimo da far scattare subito dopo il primo gradino dei due anni: l’entità di questo indennizzo minimo è stata fissata in quattro mensilità.
Oggi la legge Fornero, nei licenziamenti disciplinari, prevede la reintegra in due fattispecie: «Se è insussistente il fatto contestato; o se il medesimo fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi di lavoro o dei codici disciplinari applicabili». Le modifiche operate dal Governo operano quindi in due direzioni. Da un lato viene meno il riferimento alle tipizzazioni contenute nei Ccnl (e questo è un passo avanti considerato il fatto che spesso queste previsioni sono piuttosto generiche e sempre interpretabili). Dall’altro lato, si limita l’insussistenza del fatto al solo fatto materiale (con esclusione, dunque, del caso in cui il giudice accerta il fatto materiale, ma esclude la sussistenza del “fatto giuridico” per “carenza dell’elemento psicologico”). In pratica, ora, il presupposto per la reintegrazione, spiega il professor Pietro Ichino, ordinario di diritto del Lavoro alla Statale di Milano, «è costituito dal fatto che sia raggiunta una prova piena dell’insussistenza del fatto contestato. E soprattutto non basta più che la decisione del giudice si fondi sull’insufficienza della prova circa il fatto acquisita per documenti o per testimoni, ovvero sulla possibile sussistenza di un ragionevole dubbio circa la colpevolezza del lavoratore. Quando di questo si tratti, il lavoratore avrà diritto soltanto all’indennizzo».
Una delle novità del Dlgs con la nuova disciplina, per i neo-assunti, sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è l’estensione delle modifiche all’articolo 18 anche ai licenziamenti collettivi. Che sono disciplinati dalla legge 223 del 1991 e scattano quando l’impresa intende effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito della stessa provincia. Attualmente, in base alla 223, esistono due differenti regimi sanzionatori in caso di licenziamento illegittimo. Se si violano i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare l’impresa è punita con la reintegrazione (più un risarcimento fino a 12 mesi). Per tutti gli altri casi di errori nella procedura (che coinvolge anche i sindacati) è previsto il pagamento di un indennizzo. Le nuove tutele crescenti, però, hanno modificato le regole sulle sanzioni in caso di licenziamenti individuali; e quindi il Governo ha deciso di uniformare le discipline, modificando anche i licenziamenti collettivi.
UN PAIO DI CONCLUSIONI NON TECNICHE
Ora cerchiamo di tirare le fila. Con una premessa che è anche una consapevolezza: in queste questioni i commenti politici sono più ardui per la tecnicità della materia su cui peraltro non concordano neppure tecnici e ministri. Insomma, governare è più difficile che commentare. E scrivere norme è più complicato che scrivere un articolo di giornale. Ciò detto, cerchiamo di fissare alcuni punti.
– Riforma e decreti sono nel solco della mozione approvata dalla direzione del Pd il 29 settembre scorso.
– “Abbiamo reso più agevoli i licenziamenti economici”, ha detto ieri senza tanti giri di parole Renzi in conferenza stampa; un obiettivo centrato che può rendere soddisfatto il Nuovo Centrodestra.
– Sono state rafforzate le tutele per chi resta senza un lavoro; e per questo la sinistra Pd ha votato riforma e dato il via libera ai decreti attuativi.
– Il totem dell’articolo 18 è stato di fatto rottamato (soprattutto a parole) da Renzi, come una tenacia che forse neppure il Berlusconi più liberista aveva mai fatto.
– Jobs Act? Riforma bella e impossibile per l’eterogeneità della maggioranza, sostiene Benedetto Ippolito su Formiche.net.