Skip to main content

2015, tutti i passi verso un nuovo ordine mondiale

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Per valutare lo scenario che stiamo costruendo, occorre partire da una serie di premesse: a) il vecchio modello geoeconomico della globalizzazione post-guerra fredda ha chiuso il suo ciclo, b) l’emersione di nuovi attori globali ha un fortissimo e imprevisto  rilievo strategico e militare, e quindi non solo economico, c) la lunga fase della globalizzazione ha prodotto non meno, ma più conflitti regionali, oltre a non risolvere le vecchie fratture mediorientali e asiatiche.  E’ probabile anzi che se ne stiano creando di nuove, nei mari caldi del Sud Est asiatico, nell’Oceano Indiano, sulle coste dello Yemen e  nell’area del Baltico orientale.  Sembra di rileggere Toynbee o i vecchi, mai dimenticati, classici della geopolitica come Mahan e Mackinder: le “buffer zones” e i “mari regionali” che circondano (e isolano) le masse terrestri, dallo Hearthland centroasiatico al continente latinoamericano e al “mare chiuso” mediterraneo, che unisce e separa insieme la penisola eurasiatica e la sua vecchia colonia romana, il Maghreb.

Detto tra parentesi, sarebbe bene rivedere ogni tanto le carte e la storia dell’Imperium Romano, per capire come, per esempio, l’Africa settentrionale preislamica sia stata essenziale nello sviluppo economico-strategico di Roma, e come l’espansione nel Mediterraneo orientale sia stata la garanzia geostrategica dell’espansione terrestre del Limes orientale dell’Imperium. Senza Oriente non si capisce Roma, e non si comprende nemmeno la modalità con la quale, rivoluzione culturale determinante nella storia umana, la piccola sètta dei Cristiani diviene l’erede della Roma Eterna.
E questo passaggio ad Est  viene ripetuto, ricordiamolo, dall’ultimo bagliore di grandezza strategica e economica italiana: le Repubbliche Marinare, che vanno a Oriente per ripetere il miracolo geopolitico (e economico) della integrazione mediterranea dell’Europa, chiave della sua salvezza economica e militare. La piccola penisola eurasiatica, da sola, è il boccone preferito dello Hearthland, e Stalin con Guerra Civile spagnola lo sapeva benissimo, mentre oggi è ormai chiaro che gli USA pensano a ridurre la questione del loro rapporto con l’Europa alla limitazione militare della Russia di Putin e, soprattutto, pensano solo alla Cina.

Nel mezzo, il vuoto strategico e, ormai, geoeconomico, di una Europa estenuata che pensa cose vecchie e non sa mantenere né il welfare state, che tra poco non sarà più sostenibile, nemmeno con la ripresa economica, né la sua area di controllo strategico mediterranea e orientale terrestre. L’Europa Unita di oggi conta infinitamente di meno di quella che si presentò, dopo le Guerre Napoleoniche, a ridisegnare se stessa e il mondo al Congresso di Vienna.

L’Europa quindi deve piantarla di pensare solo al piccolissimo cabotaggio economico e tariffario (che tra poco verrà spazzato via dall’accordo TTIP  con gli USA) e ricominciare a pensare in grande, come i mercanti veneziani che partono per la via della seta verso Pechino o i loro colleghi pisani che, tra una mercatura e l’altra, portano in Europa l’algebra e la cultura greco-alessandrina passata in mani arabe.

Oggi, peraltro, nessun Paese europeo ha una politica mediterranea a lungo termine: si va dal tentativo di Sarkozy, largamente abortito, di costruire una “Union pour la Méditerranée” che espande l’area della francophonie, o alle maldestre utilizzazioni delle “primavere arabe” che, nel loro disastro finale, hanno riportato alla luce le specificità dei Paesi che compongono l’area: la Tunisia è ritornata finalmente  bourghibiana con Essebsi, l’Egitto è ritornato agli “ufficiali liberi” nazionalisti dell’eredità nasseriana, la Libia è, l’errore più grande di tutti, una “espressione geografica” e una pistola jihadista puntata verso l’Europa.

E c’è da ringraziare il Cielo che la destabilizzazione tribale-jihadista non si è espansa all’Algeria o al Regno Alawita del Marocco, che proseguono nella loro crescita egemonica regionale, Algeri verso il Sud e Rabat verso la sua dimensione oceanica, quasi come ai tempi, cantati da Fernando Pessoa, di Re Enrico il Navigatore.

Israele è solo, forse anche più forte di prima ma,  se tutto continua ad andare come oggi, lo Stato Ebraico dovrà ricostruire alleanze euroccidentali che sembravano scontate e non lo sono più, e la porta è aperta verso la Cina, già amica di Gerusalemme, e la “Terza Roma”, Mosca, che arriverà nell’area controllata da Israele portando in dono le mediazioni sul nucleare iraniano e il silenziamento della Siria di Bashar el Assad, ridotta all’entroterra dei porti militari post-sovietici sul Mediterraneo siriano. Quasi il ritorno della “V Eskadra” sovietica nel Mediterraneo, uno dei punti di snodo della Guerra Fredda.

La “grande pace” degli scambi universali, preconizzata dai cantori della globalizzazione-americanizzazione degli anni ’90 non si è realizzata, e non ce ne dobbiamo certo meravigliare. Non si fa politica estera trasformando in slogan bonnes à tout faire quelle frasi che Benedetto Croce chiamava “alcinesche seduzioni”: Libertà, Democrazia, Diritti Umani, si declinano tutte in modo diversissimo a seconda del meridiano o del paralleo in cui appaiono.
Come diceva Voltaire nella sua voce sulle “Leggi” dell’ancora utilissimo “Dizionario Filosofico”,  Tutte le zone di confine e le vecchie aree lasciate ai margini del mondo bipolare sono diventate ad alto valore marginale e contendibili.

Quindi, di converso, la nuova fase della globalizzazione dei mercati è, in sostanza, il grande trasferimento delle industrie mature nei Paesi a basso costo del lavoro, con il ritorno ad Ovest, non programmato e legato ai Decisori Orientali e arabi, dei capitali finanziari così prodotti. L’Occidente non potrà mai fare concorrenza alle nuove aree industriali mondiali, a pena di destabilizzarsi socialmente, e già lo vediamo.

O si trova un nuovo ciclo produttivo da gestire come continente, e non ce ne sono all’Orizzonte, o si diventa, ma occorre pensare ad un nuovo ruolo geostrategico per la UE e per l’Italia soprattutto, di grande hub mondiale degli scambi.

Non vedo Decisori europei né, tantomeno, italiani, capaci di progettare questo meccanismo geopolitico.

Al massimo, come in Italia, si svendono gioielli imprenditoriali di Stato per fare cassa e allungare di un pochino la notte prima del default.

Quindi, dicevamo, riprendere la linea del pensiero geopolitico classico, sia per l’Europa che per il resto del mondo. Concetto di partenza: la globalizzazione ha prodotto nuove e pericolose “fault-lines” strategiche che occorre analizzare e stabilizzare, altrimenti ogni cerino acceso potrà innescare l’incendio, che non sarà nucleare, ma economico e finanziario.

La Federazione Russa, con i suoi vecchi undici fusi orari, oggi ridotti a nove, non può essere trattata come semplice potenza regionale. Peraltro, Vladimir Vladimorovic Putin sta giocando la sue carte strategiche in modo accorto e lungimirante, e il peso del gas e del petrolio russi, fortuna e dannazione sia dell’URSS che della Russia attuale, ha esportato 166,3 miliardi di metri cubi di idrocarburi in Europa Occidentale, la minaccia che prima era sulla soglia nucleare di Fulda, in Germania, e i piani di espansione sovietica verso l’Europa (aggiornati fino al 1992) è diventata geoeconomica. E non meno pesante.

Quindi, si tratta di determinare un nuovo containment postsovietico, con Mosca che ha l’interesse (che si materializza con una minaccia) a fermarsi prima della Polonia e con la garanzia, per Mosca, di un’area di espansione in Asia Centrale e ai confini con la Cina, oltre ad una presenza, peraltro già effettiva, della Russia postsovietica in alcuni centri strategici minori in Africa.

L’asse potrebbe essere proprio lo SCO, Shangai Cooperation Organization, nata per proteggere la Cina delle “Quattro Modernizzazioni” (e nell’anno dell’attacco alle Torri Gemelle) dal terrorismo islamista o comunque localista, che diverrà da “Unione Europea asiatica” la “NATO dell’Asia”, dove Mosca potrebbe avere il suo nuovo “centro di gravità” che sposta una parte della pressione postsovietica dall’Europa Occidentale, dove ormai questo tipo di pressione è, per così dire, “fuori moda”.

La Cina dovrebbe avere la garanzia internazionale di un nuovo ordine di sicurezza nell’area dei Tre Fiumi a Nord dell’India, dove la sconsideratissima fretta britannica di andare via dalla sua colonia indiana ha diviso in malo modo, e reso tutti più deboli e asimmetrici, gli stati dell’area: Il Pakistan, la Federazione Indiana, il Bhutan, il sistema dell’Himalaya e le piccole enclaves entico-religiose là ancora presenti, per non parlare dei riflessi geostrategici del malfunzionamento di quest’area nel quadrante tibetano, la vera punta cinese nel controllo del “nemico del Nord”, la Russia, il paese da dove vennero le invasioni dei “barbari” malamente difese dalla Grande Muraglia.

I piani strategici di Pechino sono eccessivamente ambiziosi, oggi, ma è possibile trattare una “collana di perle” di sicurezza strategica e geoeconomica per la Cina che non penalizzi troppo il Giappone e, anzi, lo riporti ad essere egemone geoeconomicamente nella sua vecchia “area di coprosperità” tra sud-est asiatico marittimo, le molte isole del Pacifico e la Corea Meridionale.

L’India avrà certamente via libera nei suoi mari regionali, mentre la tensione ai suoi  confini settentrionali sarà tale da non permettergli un rayonnement terrestre nello Hearthland, a parte un “diritto di passaggio” nell’Afghanistan che sarà, dopo la fallita stabilizzazione occidentale, terra di Mezzo tra il Pakistan che vuole la sua area di scorrimento ad Ovest contro la minaccia nucleare indiana e ricolonizzazione sciita e quindi iraniana verso il Grande Medio Oriente, con un pesante livello di controllo per le vie terrestri della nuova Via della Seta.
Gli errori strategici non sono mai di tipo economico, ma derivano dalla mancanza di cultura storica e, aggiungerei, esoterica: basterebbe conoscere l’arte alessandrino-greco-indiana della gioielleria e della scultura afghana antica, con i suoi simboli, per riprendere la giusta chiave interpretativa e strategica di quell’area.

Nulla è impossibile a chi sa trattare razionalmente e ha in mente gli interessi a medio-lungo periodo del proprio Paese, rispettando i suoi avversari.
E’ una regola primaria, peraltro, nel karate: “lo spirito prima della tecnica” e, soprattutto, “non dimenticare l’utilizzo o il rilascio della forza”.

L’America Latina sarà sottoposta a tensioni derivanti dalla lotta egemonica tra i Paesi maggiori: Brasile e, dopo la prossima e ciclica crisi finanziaria, l’Argentina.

Un nuovo MERCOSUR è impossibile, data la diversa conformazione sui mercati mondiali dei due poli di attrazione, peraltro culturalmente ed etnicamente non sovrapponibili, tra la lusitania brasiliana mista di memorie africane e l’Argentina punto di arrivo di italiani, galleghi, sirio-libanesi (ed ebrei).

Gli USA riscopriranno di essere portati naturalmente verso la “Dottrina Monroe” del  controllo esclusivo del loro Meridione Latino, che sarà l’area complementare (anche nell’economia “grigia” e “nera”, ormai globalmente integrata nei sistemi finanziari “bianchi”)  dei loro sistemi produttivi maturi, e abbandoneranno lentamente, a parte il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) l’Unione Europea al suo destino di penisola eurasiatica, salvo alcune operazioni à la carte in un quadro ONU o NATO.

Punti di contesa saranno i Poli antartico e artico, miniere di materie prime di straordinaria rilevanza. Chi vincerà nel Grande Freddo, verso il Polo Nord e Sud magnetici.  Viene in mente il grande “socialista utopista” Charles Fourier che, nella sua “Teoria dei quattro Elementi” parlava di una nuova età dell’Umanità quando si fosse realizzata l’Aurora Boreale ai Poli.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”

CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter