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Tutte le mosse dell’Arabia Saudita nel risiko mediorientale

Non cambia la strategia dell’Arabia Saudita, il maggior produttore dell’Opec, che ha ha confermato la decisione di non intervenire contro il surplus produttivo, abbassando anzi anche i prezzi al consumo in Europa. Questa decisione rappresenta una conferma della strategia di Riyadh, intenzionata a difendere la propria leadership nel mercato, anche a costo di far crollare ulteriormente il prezzo del barile, che in queste ore ha toccato nuovi minimi, attestandosi sotto i 50 dollari (meno 55 per cento rispetto a giugno, ricorda l’Economist).

IL CROLLO DEI PREZZI (INFOGRAFICA)

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(fonte: Economist. Clicca sull’immagine per ingrandire)

LA STRATEGIA DI RIYADH

Per Michael Nayebi-Oskoui, senior Middle East and South Asia analyst di Stratfor, a differenza di altri petrostati, Riyadh può sostenere ancora per un po’ questo trend al ribasso. Essa, infatti, così come i suoi principali alleati regionali, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti, vanta più di mille miliardi di dollari in riserve di liquidità. L’obiettivo di questo forcing è triplice: ridimensionare produttori concorrenti, come la Russia; fare la guerra al petrolio di scisto americano e non solo; lanciare un’offensiva del mondo sunnita contro l’Iran sciita, proprio in un momento in cui l’Iran – protagonista del negoziato sul nucleare – pare avere l’opportunità di riaffacciarsi con slancio sulla scena internazionale. Un allarme che la sta facendo riavvicinare anche ai Fratelli Musulmani, commenta l’esperto.

LA FINE DEI PETROSTATI ARABI?

Sono in molti, però, a credere che tale strategia, almeno sul versante economico, non potrà perdurare. Il crollo dei prezzi lascerà solo “macerie” e, secondo Guy Bechor, editorialista di Ynet, segnerà la fine dell’era del petrolio arabo. “Nessuno – commenta – credeva che sarebbe successo così in fretta, ma gli Stati Uniti sono già il più grande produttore di petrolio al mondo, più grande di Arabia Saudita, grazie allo shale, che ha cambiato il mondo dell’energia“. Nel giro di un anno, si prevede che Washington esporti “circa un milione di barili di petrolio al giorno” e ne producano “12 milioni al dì“. Ciò significa che “i prezzi del petrolio continueranno a diminuire“. Come risultato, “la Russia sarà schiacciata“, ma anche “l’Arabia Saudita e il resto dei Paesi del Golfo cadrà” perché “il cartello crollerà“, e “tutte le dittature che si basavano principalmente su petrolio – come l’Iran – si troveranno ad affrontare un futuro cupo“.

IL NODO DELLA SUCCESSIONE

Bechor delinea uno scenario fosco anche per Riyadh, dunque. Quanto potrà perdurare questa situazione è difficile da prevedere. Sulle prossime mosse dell’Arabia Saudita peserà però anche il nodo della successione. Il ricovero di re Abdullah bin Abdulaziz a fine dicembre, ricorda il panarabo Al-Monitor, accresce la possibilità che il regno abbia un nuovo monarca nel 2015. Le questioni più difficili riguardanti la transizione sono tuttavia ancora aperte.

L’ISIS ALLE PORTE

Riyadh ha però anche altri problemi di cui occuparsi, come l’ascesa dell’Isis. Il regno saudita – culla del wahabismo, l’interpretazione più severa dell’islam sunnita -, condivide 800 chilometri di confine con Baghdad e, da quando ha aderito alla coalizione Usa contro il Califfato, è considerata dai tagliagole come una minaccia.
Ciò è costato pochi giorni fa il primo attentato dei jihadisti, nel quale hanno perso la vita tre guardie di frontiera, uccise al confine con l’Iraq.



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