Non si può certo dire che la scomparsa del monarca saudita Abdullah, avvenuta nella notte, sia giunta inaspettata. A 91 anni, da settimane ricoverato in ospedale per una brutta infezione polmonare, la sua condizione lasciava poco spazio ai miracoli. Tuttavia la sua morte arriva in un momento in cui le sfide del regno – sia sul piano domestico, sia su quello della politica estera – sono molteplici. E aprono a diversi scenari.
IN ACQUE INESPLORATE
Il Paese, spiega il sito di analisi geostrategiche Stratfor, sta entrando in acque inesplorate. Il successore ad ascendere al trono è l’anziano (che si ritiene sia a sua volta malato di Alzheimer) principe ereditario Salman Abdul Aziz al Saud, fratellastro di Abdullah (qui il ritratto realizzato da Rossana Miranda), già ministro della Difesa. In caso di rinuncia potrebbe salire al trono il fratello Muqrin. Ma è ciò che accadrà dopo a preoccupare.
IL NODO DELLA SUCCESSIONE
L’apparente semplicità della successione dinastica – scrive sul Sole 24 Ore Ugo Tramballi – nasconde i problemi e le possibili fragilità del regime. “Abdulaziz, il fondatore del regno nel 1932, morto nel ’53, aveva avuto 16 mogli (o 21) e 37 figli (o 45). La regola che aveva imposto, prevedeva la successione del figlio più anziano. Sessant’anni dopo l’Arabia Saudita è una monarchia geriatrica, destinata a celebrare ogni anno i funerali di un re o di un principe ereditario“. Per ovviare a ciò, Abdullah aveva deciso di aggiustare le regole dinastiche.
(clicca sull’immagine per ingrandire – fonte: Economist)
“Nel 2007 aveva creato un Consiglio dei Leali composto dai figli di Abdulaziz ancora vivi e dai figli di quelli deceduti, il cui compito sarà di scegliere collegialmente il più adatto a regnare. Ma non subito. Dopo di lui, Abdallah aveva deciso che il suo successore sarà ancora un fratello, l’ultimo dei figli di Abdulaziz: Murqin, appunto. A 70 anni Murqin potrebbe garantire un quindicennio di continuità dinastica. Poi deciderà il Consiglio dei Leali, mai sperimentato prima, ma già abitato da interessi e idee in competizione“. Ed è qui il pericolo. “Se non tutti re, ogni figlio di Abdulaziz è ministro” sottolinea la firma del quotidiano confindustriale; “ciascuno ha nominato i suoi figli viceministri, vicecomandanti, vice governatori. Ogni dicastero, le forze armate, gli organi di sicurezza, il petrolio, le banche, le aziende statali sono feudi di clan familiari della casa reale“.
LE SFIDE GEOPOLITICHE
Nemmeno dal punto di vista geopolitico i prossimi anni saranno semplici per Riyadh. La sfida più grande – prosegue ancora Stratfor – sarà con il nemico storico, l’Iran, che potrebbe raggiungere un accordo con l’alleato storico del regno, gli Stati Uniti, sul suo programma nucleare. La riabilitazione internazionale di Teheran aumenterà gli alleati della Repubblica islamica sciita, in un momento in cui l’Arabia Saudita si trova completamente da sola nel cercare di gestire la crescente frammentazione del mondo arabo sunnita e tamponare il radicalismo dell’Isis. Non solo. Nonostante re Abdullah sia stato a suo modo un riformatore (ha dato alle donne il diritto di voto alle elezioni municipali, ha aperto loro il parlamento consultivo, la Shura; ha cambiato i programmi di studio, togliendone il controllo al clero wahabita), la Primavera araba ha scatenato un numero di problemi tra i quali i sauditi stanno cercando di destreggiarsi. Il più immediato è la Fratellanza musulmana, il cui modello di governance islamico-repubblicana rappresenta una afida diretta al sistema monarchico del regno.
LA LEGACY DI ABDULLAH
Ma nel futuro del regno non ci sono sono nodi di carattere dinastico o geopolitico, ma anche finanziario. Il cambio al vertice arriva infatti quando gli affari dell’Arabia Saudita, il più grande esportatore mondiale di greggio, hanno raggiunto un impasse critica. La ragione di questo stallo, rileva Foreign Affairs, risiede principalmente nella politica dell’Opec – sponsorizzata da Riyadh – volta a tenere bassi i prezzi della materia prima, non tagliando la produzione (una politica che, per Bloomberg, non cambierà nemmeno con successore di Abdullah). Le conseguenze di questa strategia sono diverse. Se è vero che da un lato ciò danneggia alcuni competitor dei sauditi come Russia e Iran, dall’altro potrebbe avere serie ripercussioni interne. 89 miliardi di dollari di perdita di introiti nel 2015, assumendo che il prezzo del petrolio si aggira sui 55 dollari al barile, non porterà ad una rivoluzione sociale. Ma i tagli netti alla spesa sociale e agli stipendi dei dipendenti pubblici, che rappresentano il 50% della spesa di bilancio, potrebbe avere conseguenze imprevedibili. In effetti, conclude la rivista, un aumento della disoccupazione potrebbe minare la stabilità del regno molto prima di quanto i suoi leader si aspettano. Anche se, alcuni analisti, hanno già pronta la soluzione. In caso di tempesta finanziaria a breve termine, Riyadh potrebbe attingere ad un “tesoretto” circa 750 miliardi di dollari di riserve, prevenendo così grosse sforbiciate al bilancio.