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Charlie Hebdo fra terroristi, farisei e codardi

Voltaire potrebbe essere musulmano? Se lo chiede l’Economist e risponde con le parole di un tweet lanciato nella rete come tributo al poliziotto ucciso dai fratelli Kouachi: “Sono Ahmed, Charlie ha ridicolizzato la mia fede e la mia cultura, ma io sono morto per difendere il loro diritto di farlo”. E’ la parafrasi di una famosa frase attribuita al filosofo francese: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”.

Salah-Aldeen Khadr, produttore esecutivo di Al Jazeera non la pensa così. Tanto da aver “invitato” i giornalisti a prendere le distanze dallo slogan Je suis Charlie e a sottolineare che non si è trattato di un attacco alla libertà e alla cultura francese, ma di “un bersaglio limitato, reo di aver offeso un miliardo e mezzo di musulmani. I vignettisti sapevano che si esponevano a rischi”. Nell’emittente araba è scoppiata una polemica con molti giornalisti inglesi, vedremo come andrà a finire. Ma una cosa è certa: François Hollande ha torto nel separare il sostantivo terrorismo dall’aggettivo islamico.

I terroristi parigini agivano in nome dell’Islam così come i brigatisti rossi in nome di Lenin e Mao Tsedong. Nascondere la matrice ideologica è puro fariseismo, far finta di non vederla è solo codardia. La giustificazione del terrore sotto la bandiera di Maometto arriva formalmente con il regime di Khomeini in Iran, ma a sua volta è il frutto del drammatico risveglio politico dell’Islam, del suo rapporto con l’occidente e con il colonialismo, fino alla radicalizzazione cominciata almeno un secolo fa.

Naturalmente non si deve fare di tutt’erba un fascio. Anche l’islamismo radicale si sviluppa lungo due filoni, quello fondamentalista della Fratellanza musulmana di Hasan al-Banna e Sayyid Qutb, che accetta la democrazia (più o meno strumentalmente) e quello rivoluzionario che parte dal basso ed è, per sua natura, policentrico. Al Qaeda e l’Isis sono uniti dal mito del nuovo Califfato, ma divisi politicamente: Zawahiri e gli eredi di Bin Laden sono più globalisti, per loro la umma, la casa, è il mondo intero come per gli anarchici del primo Novecento; i seguaci di al-Baghdadi, invece, perseguono un obiettivo anche territoriale. Anche se i sentieri sono destinati a incrociarsi come è avvenuto in Francia con i fratelli Kouachi, addestrati in Yemen da al Qaeda, e Choulibaly che ha dichiarato di combattere per l’Isis.

Ci sono, inoltre, intellettuali musulmani che s’interrogano sul rapporto tra testo sacro e libertà: “Tutti dovrebbero essere liberi di sostenere quelle che secondo altri sono opinioni sbagliate. L’Islam deve difendere questo diritto. E allora perché ogni volta che un musulmano critica il pensiero ufficiale si scatena il panico? Perché la critica del passato storico e dell’espressione religiosa ortodossa è considerata un reato?”. Lo ha scritto un grande studioso del Corano, Nasr Hamid Abu Zayd. Ma è stato condannato per apostasia nel 1995, cacciato dall’Università del Cairo ed è morto in esilio in Olanda.

Non si tratta di fare lezioncine a chicchessia. Si tratta di capire le motivazioni di quel che ha detto Hollande che pure non è stato tenero quando l’islamismo radicale ha minacciato la collocazione strategica della Francia, unico Paese ad aver combattuto armi alla mano contro il Califfato, a cominciare dall’intervento in Mali che nessun altro voleva. Sono i francesi, del resto, a bombardare i bei ceffi di al-Baghdadi tra Siria e Iraq. Lo fanno per difendere il loro interesse nazionale, si sente dire spesso in Italia. Bene. Perché anche noi non difendiamo il nostro (ammesso che le classi dirigenti italiane sappiano quale sia)?

Ma la questione di fondo, oggi, mentre un milione di persone marcia a Parigi, è che la pensano come Hollande anche Cameron, la Merkel, Renzi e tutti i leader europei convenuti a place de la République. Hanno paura di offendere e provocare i musulmani che abitano nei loro Paesi o di eccitare la destra xenofoba? Probabilmente, e sono senza dubbio preoccupazioni legittime, politicamente sagge. Quel che va messa in discussione non è la giusta dose di realpolitik, ma il modo di intendere la laicità e la difesa della propria identità.

L’idea prevalente in Europa occidentale è che la tolleranza volterriana sia sinonimo di relativismo. E’ il tratto comune di una Unione europea che non ha radici, né giudaico-cristiane né greco-romane, né gallico-germanica. Ma a forza di negare, si arriva anche a nascondere i valori fondamentali che ci tengono insieme.

Bisogna essere accoglienti e tolleranti, tuttavia una concezione passiva dell’accoglienza e della tolleranza sconfina ovunque nel nichilismo. Il rifiuto di definire la propria identità induce a nascondere la testa sotto la sabbia. Proprio questo rifiuto rende non più facile, ma più difficile, anzi impossibile il dialogo. Michel Houellebecq è, anche lui, un provocatore di professione, però nel suo romanzo Sottomissione coglie un punto forte non tanto quando immagina l’introduzione della sharia in Francia, piuttosto quando riconosce il fascino che la predicazione coranica può avere in un universo vuoto, nel regno dell’ultimo uomo dove sono scomparsi i valori e le passioni. Perché non basta certo un cinguettio per tingere di verde Voltaire.

Stefano Cingolani

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