Il secondo semestre del 2014 è stato segnato dal crollo delle quotazioni del greggio. Dopo aver raggiunto un picco di 115 dollari a metà giugno, il prezzo del Brent Dated ha iniziato a ridursi in modo costante per tutto il terzo trimestre, per poi crollare nell’ultima parte dell’anno. A metà dicembre è stata infranta la soglia psicologica dei 60 dollari e non si sono ancora presentati segnali di un’interruzione della tendenza al ribasso.
Un calo del 40% in un semestre è un avvenimento, ma le quotazioni del greggio sono storicamente sottoposte a oscillazioni. Per restare agli anni recenti, nel 2008 le quotazioni medie giornaliere erano passate dai 144 di metà luglio ai 34 dollari di fine dicembre: -76% in poco più di cinque mesi.
La caduta dei prezzi a cui stiamo assistendo è stata causata da un doppio fenomeno. Da un lato l’offerta ha continuato negli ultimi anni ad aumentare, in primo luogo grazie alla produzione da non convenzionale in Nordamerica.
Tra il 2011 e il 2014 nei soli Stati Uniti la produzione petrolifera è aumentata da 7,8 a 11,6 milioni di barili al giorno (Mbbl/g), su un totale mondiale di circa 90 Mbbl/g. L’incremento è avvenuto quasi interamente grazie all’aumento della produzione da argille (shale oil) ottenuto adottando fratturazione idraulica e perforazione orizzontale (quest’ultima, usata anche nei giacimenti convenzionali).
L’aumento di produzione in Nordamerica ha ridotto in parallelo le importazioni, liberando volumi per altri mercati. Dal lato dell’offerta, però, qualcosa non è andato come previsto dagli operatori. Con la domanda europea ormai in perenne contrazione, i mercati asiatici sono lo sbocco pressoché inevitabile delle esportazioni.
A partire dal terzo trimestre però la domanda cinese è stata più debole del previsto, mentre quella indiana e quella giapponese si sono contratte. Il risultato è stato uno scompenso tra la domanda attesa dagli operatori e quella effettivamente registrata, che ha innescato la discesa dei prezzi.
La contrazione dei prezzi è poi continuata sulla base delle nuove aspettative di debole domanda, tanto che l’Agenzia internazionale per l’energia ha tagliato le stime di crescita della domanda quattro volte negli ultimi cinque mesi.
In questi mesi i sauditi hanno deciso di non intervenire, preferendo difendere le quote di mercato e non dover subire da soli i costi del riequilibrio del mercato. L’efficacia di un taglio della produzione saudita sarebbe peraltro stata limitata del fatto che sui mercati c’è un eccesso di greggi leggeri e a basso contenuto di zolfo, mentre l’Arabia Saudita produce in prevalenza greggi medi e a più alto contenuto di zolfo.
Nel complesso, il mercato petrolifero mondiale vale alcuni miliardi di dollari al giorno. La principale conseguenza del crollo dei prezzi del greggio è quindi una netta riduzione del valore degli scambi, che se da un lato stimola la crescita dei paesi importatori, dall’altro riduce drasticamente i flussi di cassa per i produttori.
Nel caso degli operatori privati, la dinamica fa parte dei rischi d’impresa e il fallimento di alcuni piccoli operatori del non convenzionale americano, oltre ad apparire quasi inevitabile, non è destinato ad avere effetti rilevanti a livello internazionale.
Diverso è il discorso per i grandi paesi produttori dove gli operatori sono controllati dallo stato e dove le esportazioni petrolifere rappresentano una quota rilevante delle esportazioni e del Pil. In questi paesi, dal Medio Oriente all’ex Unione Sovietica fino ai produttori africani e sudamericani, la riduzione dei prezzi del greggio vuol dire peggioramento improvviso della bilancia commerciale, contrazione economica e soprattutto riduzione del gettito per le casse pubbliche.
Quasi tutti i paesi, con l’eccezione più notevole del Venezuela, dispongono di fondi sovrani creati con parte delle rendite petrolifere e pensati anche per far fronte a situazioni come quella attuale. Si tratta di fondi, nei casi russo e saudita, da centinaia di miliardi di dollari, che possono garantire un po’ di margine in più ai rispettivi governi.
Si tratta però sempre di una questione di tempo: se per alcuni, come i sauditi, la durata si può misurare in anni, nel caso russo l’orizzonte temporale è di alcuni trimestri, prima che gli effetti delle basse quotazioni inizino a diventare più difficili da gestire.
Proprio la Russia oggi è osservata speciale. I precedenti storici non son incoraggianti: le basse quotazioni di metà anni Ottanta accelerarono il declino sovietico, mentre quelle di metà anni Novanta portarono al default del 1998.
Le esportazioni petrolifere valgono quasi il 15% del Pil russo e storicamente il suo andamento è stato strettamente correlato con quello delle quotazioni petrolifere, tanto che la Banca centrale russa ha già previsto una contrazione per il 2015 di almeno il 4,5%, a cui si sta sommando un’inflazione crescente in parte dovuta alla svalutazione del rublo.
Al crollo dei prezzi si aggiunge poi il peso delle sanzioni internazionali volute dagli Stati Uniti, che stanno creando problemi soprattutto al settore bancario russo. Se la contrazione dei prezzi dovesse continuare, il rischio è che il governo russo si trovi costretto a tagliare la spesa pubblica anche in settori più delicati per il mantenimento del consenso.
Gli effetti sulla stabilità politica russa e degli altri produttori petroliferi dipenderà dalla durata del calo dei prezzi. Le aspettative dell’Energy Information Administration statunitense per il 2015 sono di un prezzo medio di 68 dollari, ma il mercato potrebbe richiedere più del previsto ad riequilibrarsi.
A spingere di nuovo verso l’alto i prezzi potrebbero essere due fenomeni: da un lato, una crescita della domanda più forte del previsto, stimolata anche dai prezzi bassi. Oppure una riduzione dell’offerta, per la destabilizzazione di un paese esportatore di peso oppure per una riduzione della produzione non convenzionale a causa dei minori investimenti.
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Matteo Verda, ISPI Associate Research Fellow