Il vecchio continente è alle prese con una grande quantità di crisi, al suo interno e lungo i suoi confini. La crisi economica ed occupazionale ha trovato un argine nelle misure eccezionali della Bce ma è tutt’altro che risolta, e non lo sarà in tempi brevi. La stessa integrazione fra Paesi che mantengono regimi fiscali e previdenziali diversi e che sono in fortissima competizione fra loro resta un problema che Bruxelles e le singole capitali non sembrano in grado di risolvere. Vi è poi la minaccia del terrorismo: anche in questo le regole europee appaiono nella realtà un limite anziché una opportunità (si veda la incapacità di istituire in Passenger Name Record per il traffico aereo).
Sul fronte esterno non si possono non considerare le questioni legate all’immigrazione e alla sicurezza dei confini, tanto a sud (Libia in primis) quanto ad est. Da questo punto di vista, l’allarme per le vicende ucraine ancora non suona nelle opinioni pubbliche e nei governi tanto forte quanto meriterebbe. Gli attacchi da parte dei ribelli filorussi e la sostanziale fine del cessate il fuoco rappresentano oggi la maggiore fonte di preoccupazione per un’Europa tutta involuta al suo interno e focalizzata prevalentemente sulle elezioni in Grecia.
Il conflitto alimentato da una Russia in profonda crisi potrebbe trasformarsi in una guerra. Gli elementi ci sono tutti. Quando il premier di Kiev, Poroshenko, è intervenuto a Davos ha tuonato per denunciare la gravità della situazione. Abbiamo potuto ascoltare le sue parole sulla Cnn e non invece sui nostri Tg nazionali. Allo stesso modo, sono diversi giorni che gli Stati Uniti inviano messaggi di forte preoccupazione, soprattutto attraverso la voce della rappresentante presso le Nazioni Unite, l’ambasciatrice Samantha Power. Noi europei, che siamo più vicini a questo focolaio che rischia di trasformarsi in incendio, siamo come imbambolati.
L’italiana Federica Mogherini, che ora guida la diplomazia europea, addirittura proponeva fino a pochi giorni fa di allentare le sanzioni contro Mosca. E’ dovuta andare a Washington perché il segretario di Stato John Kerry le illustrasse la gravità dell’atteggiamento di Putin. Finalmente, l’altro giorno la nostra Lady Pesc è intervenuta con decisione per denunciare le violazioni della Russia. Oggi invece è stato il Papa ad invocare il cessate il fuoco in Est Ucraina. Vedremo se le sue parole giungeranno fino al Cremlino.
Nella tattica di Putin sembra prevalere l’approccio di un continuo stop and go che consente comunque ai suoi di avanzare nel territorio sovrano dell’Ucraina. Fin qui, si è sempre fermato un attimo prima che la situazione degenerasse in modo irreversibile. Quanto però potrà andare avanti così? Fino a quando la comunità internazionale potrà illudersi che bastino le sanzioni economiche?
Chiunque guardi alle vicende di questi giorni con razionalità non può non immaginare l’eventualità di una adeguata reazione militare. Si tratta di pensieri inquietanti ma non possiamo fingere che non ci siano. Il problema in questo caso è chiaramente il Cremlino, non è la Nato, non è altro. Se si vuole evitare che la guerriglia precipiti in una ineluttabile guerra, occorre uno sforzo diplomatico enorme che solo l’Europa può condurre cercando di divenire davvero unita e determinata.
L’Italia nei mesi passati si è distinta nel tentativo di aiutare Putin. Abbiamo fallito due volte: anzitutto perché l’Orso russo non ha dimostrato di apprezzare e meritare le aperture di credito e poi perché, per la stessa ragione, non siamo riusciti a convincere i nostri alleati, europei ed americani. Serve un cambio di passo, a Roma come a Bruxelles. Possiamo dedicarci quanto vogliamo alle elezioni greche ma la vera emergenza riguarda la politica estera e in particolare il fronte ucraino. Se vogliamo evitare scenari bellici di larga scala, meglio concentrarsi su questa che è la priorità europea numero uno.