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La lotteria del Quirinale allestita da Renzi e Bersani

Già declassata a una giostra per la frequenza con la quale vi salivano e scendevano le sagome di candidati persino impossibili, come l’ineleggibile Enrico Letta, sponsorizzato da chi ne ignorava l’età inferiore a quella minima dei 50 anni richiesta dalla Costituzione, la corsa al Quirinale è diventata persino una lotteria.

A spingerla a questo livello è stato addirittura il presidente del Consiglio e segretario del Partito Democratico quando al tavolo televisivo di Lilli Gruber ha sfidato il direttore dell’Ansa, Luigi Contu, a scommettere sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica al quarto scrutinio. Che è il primo per il quale basta la maggioranza assoluta dei parlamentari e delegati regionali, anziché quella dei due terzi necessaria nei precedenti tentativi.

Contu non ha scommesso. Ed ha fatto bene, mostrando un rispetto istituzionale per la successione a Giorgio Napolitano pari a una diffidenza altrettanto apprezzabile, e condivisibile, verso l’abituale e spavalda sicurezza che Matteo Renzi oppone alle scadenze che lo attendono. E che spiega, o giustifica, con l’obbligo di un capo del governo d’infondere ottimismo per contrastare gufi e ogni altro genere di menagramo.

Questa di Renzi è un po’ la filosofia impostasi a suo tempo nella stessa postazione da Silvio Berlusconi, che non a torto manifesta simpatia nel giovane successore: l’unico peraltro al quale egli abbia perdonato, con un misto di generosità e di convenienza, il ruolo pesantemente svolto dietro le quinte nell’autunno del 2013, fuori da Palazzo Madama, in veste solo di aspirante alla segreteria del Pd, per la sua decadenza da senatore, dopo la sorprendente condanna definitiva per frode fiscale. Una decadenza votata al Senato a scrutinio scandalosamente palese e intimidatorio, nonostante fosse in gioco una posizione personale, e in applicazione retroattiva di una legge così discutibile che politici e giuristi autorevolissimi anche di sinistra avevano sostenuto l’opportunità di investire preventivamente della questione la Corte Costituzionale.

Fu proprio la paura di Renzi e dei renziani nella partita congressuale che si stava preparando nel Pd a indurre l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta ad assumere sulla decadenza di Berlusconi una posizione di apparente neutralità e sostanziale ostilità, anche a costo di mutilare la maggioranza delle cosiddette larghe intese, comprensiva dell’allora Cavaliere, che lo aveva portato pochi mesi prima a Palazzo Chigi.

Nonostante quel passaggio, e quello ancora fresco di stampa del ritiro di un decreto fiscale per via del vantaggio che avrebbe potuto ricavarne anche Berlusconi, il segretario del Pd e presidente del Consiglio ha con l’ormai ex senatore ma perdurante leader di quel che rimane del nucleo del vecchio centrodestra un rapporto di sostanziale alleanza su un fronte che dalle riforme istituzionali si è automaticamente e naturalmente esteso alla partita del Quirinale. Ed è proprio puntando sull’aiuto di Berlusconi che Renzi accetta scommesse sulla quarta votazione per l’elezione di un presidente della Repubblica evidentemente gradito ad entrambi.

Al netto della componente di azzardo che sicuramente contiene la sfida di Renzi, è più che legittimo chiedersi su quale nome, o profilo, come si preferisce dire in questi casi, potrà maturare, se non è già maturata dietro le quinte, la convergenza d’interessi del presidente del Consiglio e di Berlusconi nella lotteria del Quirinale.

Le distinzioni di genere, femminile o maschile, dovendosi escludere per ragioni di buon gusto soluzioni trans, possono ormai ritenersi secondarie, pur dopo il sacro fuoco acceso nelle scorse settimane per la prima volta di una donna sul Colle più alto di Roma.

Escluse anche le originarie tentazioni “tecniche” per la necessità sempre più avvertita e riconosciuta di una soluzione tutta politica, rimane da definire la provenienza o appartenenza partitica del successore di Napolitano. Ma su questo versante Renzi per tenere agganciata la maggior parte possibile del proprio partito, decisiva per l’esito di una votazione a maggioranza assoluta, deve pescare al suo interno un candidato in grado di essere digerito da Berlusconi. Il quale, dal canto suo, ha già realisticamente messo nel conto la provenienza Pd del nuovo presidente della Repubblica, fiducioso che altrettanto realisticamente Renzi non gliene infiocchetti uno troppo marcato o indigesto come, per esempio, Romano Prodi.

A bruciare il quale, d’altronde, prima ancora che il professore emiliano potesse trarre qualche vantaggio d’immagine anche dall’invito dell’Eliseo a partecipare a Parigi alla marcia contro il terrorismo islamico che l’aveva orribilmente aggredita, ha già provveduto nello stesso Pd l’ex segretario Pier Luigi Bersani. Che lo ha proposto come il candidato da cui “ripartire”: cosa notoriamente diversa da arrivare, come lo stesso Prodi sperimentò meno di due anni fa mancando nel segreto dell’urna l’obbiettivo del Quirinale offertogli sempre da lui, Bersani.



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