Skip to main content

La Repubblica di Scalfari e la Repubblica di Napolitano

Rino Formica osservatore acuto, anche se ancora più inacidito di quando in prima linea litigava con Beniamino Andreatta, ha previsto come la prossima elezione del presidente della Repubblica avverrà sotto il segno del caos perché da una parte i parlamentari vorranno vendicarsi di Matteo Renzi che li ha snobbati, dall’altra le tendenze unificanti “nazionali” saranno minime perché la politica svuotata lascia dappertutto il campo ai risentimenti.

Nelle ultime settimane nonostante questo incombente destino, si è cercato di trovare un’intesa su Pier Carlo Padoan candidato che ha più di una caratteristica interessante: ha un rapporto solido con Mario Draghi e dunque tranquillizza gli americani, è stimato dai tedeschi, ha un legame antico con Massimo D’Alema, non spaventa Silvio Berlusconi, non fa ombra a Matteo Renzi.

Proprio perché è una candidatura fortissima sono decollati, in questi ultimi giorni, i giochi per farla fuori.

Il primo ostacolo ha cercato di porlo Eugenio Scalfari – irritato perché Carlo De Benedetti non lo consulta sulle sue manovre – piazzando Padoan come suo candidato preferito tra Umberto Eco, Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà: un evidente tentativo di bruciatura.

Ben più articolata l’operazione “Aiuto! Salvano Berlusconi” costruita su un norma secondaria di un difficile tentativo di pacificazione fiscale con gli italiani: nel quadro di molte e ragionevoli depenalizzazioni si è posta anche la questione delle frodi fiscali minori. Questa norma è stata  raccolta con clamore da tutto l’universo giustizialista (dalla Repubblica al Fatto, dall’Anm a Luigi Ferrarella). Ma si è poi visto bene chi per primo ha ideato la denuncia di questo scandalo: l’ineffabile Vincenzo Visco innanzi tutto invidioso perché Padoan ha maggiore successo di lui. Così ha usato i suoi uomini nel ministero per informarsi e poi ha scatenato il fido scudiero Stefano Fassina per attaccare direttamente il ministro in carica. Il tutto con uno slogan da fuori di testa: sul fisco dobbiamo fare come gli Stati Uniti!

Ma per fare come gli Stati Uniti cioè per ottenere una totale adesione tra cittadini e Stato che consenta anche particolare durezza repressiva di chi sgarra, non si può partire solo dal fisco.

Basta solo ricordare come lo Stato americano sia nato proprio dall’esaltazione dell’evasione contro le tasse “inglesi” a partire da quella sul tè.

Poi, cittadini che eleggono sistematicamente (non esiste la possibilità di un governo tecnico) non solo i propri rappresentanti ma anche i propri pm e i propri giudici, che sono padroni dello Stato fino alle giurie popolari, hanno costruito quel saldo principio del legame stretto tra fisco e rappresentazione che consente la massima severità.

Visco è in generale una persona intelligente a intermittenza: ogni tanto è obnubilato da un’astrattezza senza limiti che lo rende quasi ridicolo. Nel caso in questione però quel che ha pesato  è il risentimento: un umore assai generalizzato e che conterà in tutte le prossime scadenze.

Come contrastarlo?

Credo che la via per riacquistare il minimo di concordia necessaria per una scelta civile (intendendo anche, in questo senso, per “scelta militare” una tipo Raffaele Cantone, pur magistrato che si è distinto per singolare efficacia per di più accompagnata da una sostanziale sobrietà) sia quello di drammatizzare la situazione. E’ difficile dar torto a Edward Luttwak quando critica Matteo Renzi per i suoi fastidiosi sorrisini tesi a sottolineare l’idea che tutto sia sotto il suo controllo.

Il problema, comunque, non sono le eventuali colpe del presidente del Consiglio ma il fatto che gli assetti internazionali stessi inducono a pensare come niente sia sotto controllo: lo si coglie dalla Grande bottegaia Angela Merkel stessa che comincia a corteggiare Alternative für Deutschland sul Grexit, dai settori dell’Ump che iniziano a flirtare con Marine Le Pen, da David Cameron che non esclude un governo con l’Ukip.

Il grande pasticcio di un euro senza adeguata governance politica, di cui Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi portano un’eccezionale responsabilità (ma anche i sonni di Silvio Berlusconi e dei leghisti pur all’opposizione hanno dato un contributo), è arrivato al capolinea. I wishful thinking di maggiore integrazione non faranno che gonfiare le Le Pen, i Farage e le varie Alternative: bisognerà pensare a qualcosa di più articolato (come i “due euro” per esempio) se si vorrà evitare crisi dirompenti. Ma anche uscire dalla grande stagnazione che ormai ci sovrasta.

Una presidenza della Repubblica che accompagni Palazzo Chigi in questa traversata con capacità e buon senso sarebbe una vera manna. Così come assai prezioso sarebbe un presidente che si ritira dall’intrigo politico e si affida con la massima serenità al voto dei cittadini. Il pieno dispiegarsi della sovranità popolare – in una situazione che per fortuna non è ancora weimariana – è oggi ben più utile che il disperato invocare la normalità di una Costituzione ormai boccheggiante.

In questo senso l’ultima esperienza di un presidente “politico” è stata disastrosa: la nostra democrazia – dalla superbolla grillina, alla distruzione sistematica delle regioni unita ai pasticci sulle province, dall’Emilia che vota sotto il 40% ai sindaci demagoghi-incapaci (dai Doria di Genova ai Pisapia di Milano ai de Magistris di Napoli fino ai prossimi Casson di Venezia) – è in via di disgregazione. Di questo è in buona parte responsabile quel tragico gentiluomo di Giorgio Napolitano, che volendo il massimo di armonia – intrecciando insieme superbia e pavidità- ha prodotto il massimo di disordine.

Dai Rajoy in Spagna ai Samaras in Grecia, dai Netanyahu a Gerusalemme agli Abe in Giappone, tutte le democrazie del mondo insegnano come siano i cittadini a dovere indicare “la via” ai liberi Stati. Commissariarli, invece, non produce che una radicale devitalizzazione.


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter