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La vecchia fragilità del nuovo Obama

Il discorso sullo Stato dell’Unione di Barak Obama, tenuto a Washington ieri davanti al Congresso, passerà alla storia come il grande annuncio della svolta. In effetti, l’economia americana cresce, la recessione derivata dal crack finanziario del 2008 è superata e ci sono chiari segnali di ripresa. Il presidente con soddisfazione ha potuto vantare un aumento dell’occupazione che riporta il Paese ai livelli di quindici anni fa, quando con l’amministrazione Clinton tutto andava a gonfie vele.

In realtà, la situazione complessiva è molto meno confortante di quello che sembra, e, sebbene Obama abbia ritrovato una popolarità apparentemente perduta, pesano su di lui la clamorosa sconfitta alle elezioni di medio termine e una situazione internazionale tutt’altro che facile da gestire.

L’opposizione repubblicana, di fatto maggioranza al Congresso, non gli darà tregua fino al 2016, cercando di metterlo in difficoltà su ogni iniziativa che verrà presa.

Gli sforzi di Obama saranno volti principalmente al completamento delle riforme economiche e sociali, e alla lotta al terrorismo. Per quanto riguarda il primo punto, com’era già trapelato giorni fa, il presidente intende lavorare per diminuire maggiormente le disuguaglianze sociali, accrescendo il carico fiscale sui ricchi per rafforzare i ceti medi. Si promettono così defiscalizzazioni per le famiglie e si minacciano controlli a tappeto in materia di successioni e di transazioni finanziarie.

La linea dura di Obama è in continuità con la pendente riforma del Welfare in materia di sanità, istruzione e assicurazioni. L’attenzione ai poveri, che finora sono stati protetti da imponenti ammortizzatori governativi, adesso deve essere seguita da una politica fiscale più favorevole alle classi produttive. Tuttavia, come si sa, i costi economici per realizzare iniziative del genere sono enormi. Ed è difficile immaginare una collaborazione dell’opposizione conservatrice che potrà vantare comunque o di aver impedito o di aver attenuato questa consistente svolta dirigista.

Più complesso è, invece, il secondo tema relativo a politica estera e difesa. Obama ha voluto mostrare i muscoli a deputati e senatori promettendo un incisivo intervento contro l’Isis che prevede un’intensificazione delle iniziative militari e un ampliamento del fronte internazionale anti terrorismo, escludendo tuttavia azione dirette sul territorio.

Forse quest’ultimo è il passaggio programmatico più fragile di tutti. È chiaro, infatti, che l’efficacia militare atlantica è stata fin’ora piuttosto scarsa. Soprattutto ha pesato la mancanza di una strategia adeguata contro un nemico nuovo che agisce sia attraverso l’espansione del Califfato in Medioriente e sia attraverso la minaccia di sicurezza interna alle democrazie occidentali con attacchi terroristici compiuti da cellule dormienti e invisibili.

È molto diverso, d’altronde, se gli Stati Uniti optano per una gestione ordinaria della minaccia, o se, invece, intendono eliminare il problema alla radice, tagliando la testa allo Stato che promuove, finanzia e organizza ideologicamente e economicamente il terrorismo mondiale.

La svolta promessa da Obama, tutto sommato, è molto verbale, poco reale e piena di contraddizioni. Anche perché destinare risorse a favore di sicurezza e difesa sembra poco compatibile con le promesse fatte in materia di uguaglianza e giustizia sociale.

Letto nel suo insieme, insomma, il discorso di Obama ripropone le medesime incongruenze che hanno dominato tutta la sua presidenza, una politica economica troppo dispendiosa che finisce per annullare la concreta incidenza estera, determinando enormi deficit di governance mondiale. Il tutto con l’aggravante che in un contesto internazionale come l’attuale l’assenza dell’America sta trasformando, in definitiva, la globalizzazione in disordine e l’Europa in ventre molle.

È evidente, viceversa, che con la produttività in aumento e la progressiva attenuazione della crisi, piuttosto che contenere il dinamismo nascente mediante recessive politiche fiscali, sarebbe stato più lungimirante accompagnare l’espansione dell’economia interna con maggiori liberalizzazioni, utilizzando risorse per estendere la propria influenza nel mondo.

In ogni caso se Obama ha ragione e le dure critiche dei Repubblicani sono ingenerose lo vedremo sicuramente molto presto.

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