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Vi spiego perché la riforma Renzi delle Popolari non è da rottamare. Parla Oscar Giannino

Rappresentano il 40 per cento del panorama creditizio italiano. Fra il 2010 e il 2013 hanno erogato 6,3 miliardi in più di credito rispetto alla media del triennio precedente, a fronte di una contrazione pari a 52 miliardi del resto del sistema bancario. Il rapporto tra credito e totale degli attivi è di 16 punti percentuali superiore a quello degli istituti di maggiore peso a livello nazionale.

Alla luce di cifre del genere aumentano gli interrogativi sulla “rivoluzione” promossa dal governo di Matteo Renzi nel mondo delle banche popolari. Per capirne le ragioni e l’effettiva portata Formiche.net ha sentito Oscar Giannino, giornalista economico editorialista del Messaggero, di Panorama e Radio 24.

Come giudica l’intervento dell’esecutivo?

Non sono un difensore a priori del premier. Ma non mi riconosco nell’assalto in corso nei suoi confronti. Avrei preferito un’iniziativa mirata esclusivamente sulle 7 banche quotate in Borsa. E rilevo l’inopportunità dell’adozione del decreto legge.

Per quale ragione?

Non è opportuno agire sulla governance di società in modo così prescrittivo. Anche se il Tesoro spiega che l’arco temporale dei 18 mesi previsti per l’adeguamento alle nuove regole è stato posto ora per fornire risposte agli stress test della Bce. E che dal 1995, anno del primo documento critico formulato da Banca d’Italia, i tentativi di riforma e auto-riforma delle Popolari non hanno prodotto nulla.

Ma quali sono le vere mire di Renzi sulle banche popolari?

Fra gli avversari del provvedimento governativo vi sono due tesi. Nella migliore delle ipotesi vi è chi parla di colpo feroce al principio delle banche mutualistiche. Nella peggiore c’è chi pensa che Renzi voglia “mettere le mani in quel mondo con l’obiettivo di reperire risorse per risolvere i problema di Monte dei Paschi e Carige”. Tema che preferisco non toccare.

Atteniamoci al primo punto. Per Leonardo Becchetti Renzi ha preso di mira la molteplicità della galassia bancaria del nostro Paese tramite un’aggressione alla democrazie economica italiana.

Non ritengo che siamo in presenza di un attacco ingiustificato e immotivato a tale universo. Nei decenni alle nostre spalle abbiamo assistito a una trasformazione netta delle prime 10 banche popolari rispetto al resto del mondo creditizio cooperativo. Soprattutto le 7 realtà quotate nel mercato azionario hanno stravolto il principio del credito cooperativo figlio del mutualismo cattolico settentrionale di fine Ottocento. Per cui i soci dell’istituto erogano denaro alla banca che li utilizza per i soci stessi.

Quando è avvenuto tale cambiamento?

Finché i partecipanti alla banca cooperativa si conoscono fra loro grazie alla dimensione territoriale dell’istituto, va tutto bene. Ma poi quelle realtà crescono, e finiscono per assomigliare sempre più agli istituti creditizi commerciali. E nel momento in cui entrano in Borsa per accrescere la raccolta di risorse, si crea una frattura ulteriore rispetto alla banca territoriale. Aumentano gli azionisti estranei ai soci. Ma non contano nulla nella scelta del management, che al contrario ha buon gioco a tesser alleanze con chi rappresenta soci e dipendenti organizzati.

Qual è la conseguenza di tale squilibrio?

Una lesione insopportabile della tutela di chi investe. Ferita che nelle grandi Popolari ha prodotto un’infinità di comportamenti inefficienti e allineamenti opachi di interessi, con raffiche di interventi della Consob e delle procure. Sappiamo tutti che è così. E che insorgere in nome della difesa della mutualità è un modo per farlo dimenticare, poiché intervenire sulle grandi Popolari quotate soggette a Bce non tocca in nulla l’universo del credito che è rimasto davvero cooperativo.

È questo il “peccato” delle Popolari?

Guardiamo ai numeri forniti dal Centro studi di Mediobanca con un Focus comparativo tra i vari istituti creditizi. Le 10 banche popolari più grandi hanno 8.280 sportelli sugli oltre 9mila delle 34 realtà complessive, con la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti. E vantano attivi per 530 miliardi a fronte dei 203 dei 333 istituti di credito cooperativo. Ma vi sono due fattori molto critici.

Quali?

Il totale dei crediti dubbi in rapporto alle risorse prestate ai clienti – 12,7 per cento – è più elevato rispetto alle banche organizzate in società per azioni e alle realtà di credito cooperativo, meno esposte a rischi perché più vincolate a limiti operativi. Mentre la relazione tra patrimonio soggetto a vigilanza e attività corrette per il rischio – 13,3 per cento – è molto più ridotto. È il segno di un meccanismo sbagliato che ha prodotto gestione inefficiente e utilizzo discrezionale del credito. E ha accentuato la mancanza di garanzie per gli investitori di mercato, penalizzati dai giochi di alleanza dei “soci storici”.

Il presidente di Unimpresa Paolo Longobardi fornisce cifre lusinghiere sull’erogazione di credito delle banche popolari.

Su tale punto ha ragione. Ma ritengo che una governance più in linea con i diritti di chi dà denaro in Borsa potrebbe migliorare le performance nel concedere credito. E romperebbe il meccanismo di concessione di risorse “agli amici degli amici”.

Vi è il rischio che i vertici dei 10 istituti creditizi trasformati in società per azioni vengano sopraffatti dalla paura e rinuncino ad agire nell’erogazione dei crediti puntando più sulla finanza?

Mi auguro che ogni dubbio al riguardo venga fugato e nel corso dell’esame parlamentare del decreto legge dal governo e dallo stesso governatore della Banca d’Italia. La finalità prioritaria deve essere un testo in grado di contemperare la trasformazione della governance delle Popolari con criteri di concessione creditizia coerenti con la loro missione.

L’economista esperto di credito e sistemi bancari Giovanni Ferri mette in guardia dall’adozione internazionale di un modello bancario unico finalizzato a massimizzare il rendimento per gli investitori. 

La riforma dell’assetto delle banche popolari non la chiede l’Europa né potentati mondiali, bensì la ragionevolezza. Le misure presentate dal premier mettono l’Italia nella condizione di non perdere più tempo.

Tuttavia il governo di Berlino non ha toccato l’esperienza tedesca delle banche popolari-territoriali e di credito cooperativo

È vero. Gli istituti creditizi pubblici e cooperativi sono stati esclusi da criteri di penetrante intervento sulla congruità del loro patrimonio. Ma ciò risiede nelle lacune dei compromessi politici realizzati a livello europeo su Unione bancaria e ruolo della Banca centrale europea. Si trattava di convincere il governo tedesco ad accettare parametri di uniformità nella riforma dell’assetto creditizio comunitario.

Non ritiene come Giulio Sapelli che ci troviamo di fronte a un “colpo di Stato bancario” per favorire grandi gruppi finanziari internazionali in una fase di mancanza del “filtro del Presidente della Repubblica”?

Concordo con Sapelli sul ragionamento riguardante la “vacatio” di un capo dello Stato nel pieno dei poteri. Approvare un decreto legge nell’assenza del sindacato della più alta magistratura istituzionale è molto discutibile. Ma sul resto della sua riflessione resto in totale dissenso.

Per quale motivo?

È vero, le grandi banche estere entreranno forse nel capitale delle Popolari. Ma, al netto di tutto il male pensabile sugli estremismi finanziari anglosassoni o tedeschi, è fondamentale adottare tutte le regole di garanzia per chi fornisce capitale. Ma poi pensiamo veramente che il fondo di investimenti Algebris guidato da Davide Serra voglia impadronirsi di tali realtà creditizie?

I responsabili delle banche popolari accetteranno le nuove regole o sono all’orizzonte guerre di religione?

Ritengo che faranno legittimamente ogni cosa per evitare la conversione in legge dell’iniziativa del governo. E potranno contare su un arco eterogeneo di forze politiche favorevoli. Nell’esecutivo, per quanto ne sappia, non vi sono soltanto Angelino Alfano e i ministri del Nuovo Centro-destra a manifestare riserve e contrarietà sul provvedimento. Ma anche Giuliano Poletti e Andrea Orlando. Peraltro in Parlamento possono riflettersi i molteplici interessi locali che gradiscono l’auto-perpetuarsi dei vertici delle Popolari.

Teme imboscate nell’iter parlamentare del decreto legge?

Il rischio c’è. E se tutto finisce in un buco nell’acqua, il tentativo di riforma messo in cantiere dall’esecutivo si tradurrà in un clamoroso autogol per il premier.

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