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Perché la banda larga serve come il pane

Banda larga

La tv connessa è ormai approdata in molti dei nostri salotti, anche se non sempre ce ne siamo accorti e sappiamo sfruttarne appieno tutte le potenzialità. Ma tra chi non ne ha colto tutte le implicazioni, come driver potenzialmente decisivo per lo sviluppo della banda larga, ci sono le stesse autorità pubbliche. Sono questi alcuni dei principali risultati del Rapporto I-Com 2014 su reti e servizi di nuova generazione, che ha accolto nel ruolo di protagonista assoluto il tema delle smart tv nell’ultima edizione accanto alla banda larga.

Nel 2020 si prevede che il totale degli schermi domestici con accesso a Internet sfiorerà il miliardo a livello globale, con 965 milioni di dispositivi installati e una penetrazione del 30,4% sul complesso delle apparecchiature televisive, cioè più del doppio rispetto al 12,1% previsto per la fine dello scorso anno. L’incidenza più alta (52,7%) si registrerà in Corea del Sud, seguita da Regno Unito (50,6%), Giappone (48,6%) e Stati Uniti (47%). La maggior parte dei nuovi dispositivi sarà installata però in Cina, dove si collegheranno ben 160 milioni di schermi, contro i 92 milioni degli Usa e i 75 milioni dell’India.

Se le stime di crescita riguardo al numero di tv con collegamento a Internet sono indubbie, diverso è andare a guardare all’effettivo tasso di connessione di tali dispositivi e in particolare delle smart tv. In confronto ad altri prodotti high-tech, le tv “connettibili” presentano una peculiarità che continua in parte a frenarne lo sviluppo, anche laddove si registri una buona propensione al rinnovamento tecnologico: non hanno bisogno solo di essere acquistate dai consumatori, ma anche di essere connesse al web e utilizzate quale piattaforma con cui navigare o interagire attraverso tutte le applicazioni e i servizi supportati dal marchio scelto. Non tutti i consumatori hanno però ben chiaro questo secondo step o mostrano consapevolezza di tutte le nuove funzionalità. Negli Stati Uniti, ad esempio, a fronte di una penetrazione del 63%, le televisioni effettivamente collegate sono solo nel 37,8% delle case con banda larga. In Italia, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha stimato nella sua ultima Relazione annuale che le tv connesse siano diffuse tra il 17% del pubblico, ma che meno della metà di questi spettatori (8%) le usi in combinazione con il web.

A differenza di quanto ipotizzato nella prima fase di lancio di tali apparecchiature, la possibilità di navigare in rete dal salotto domestico non ha funzionato quale vettore di espansione per il mercato delle smart tv nonostante, parallelamente, si sia assistito a una crescita costante della fruizione di contenuti video, anche televisivi, online. Più che la tecnologia e l’hardware, a spingere verso l’espansione del comparto della tv connessa è perciò l’offerta di prodotto audiovisivo da fruire attraverso la nuova modalità online, detta anche offerta non lineare (cioè consumabile quando vuole il cliente, al di fuori del palinsesto). Si tratta dei video on demand e di quei servizi Ott (over the top) che negli ultimi anni hanno visto crescere esponenzialmente il proprio fatturato, portando nomi come Netflix, Amazon e iTunes a competere con i principali broadcaster sia nazionali che internazionali.

Penalizzato dalla scarsità di banda, nel nostro Paese il comparto degli Ott video ha cominciato solo di recente a esprimere un’offerta strutturata. Questo è avvenuto per lo più per iniziativa dei broadcaster tradizionali, che si sono aperti all’online facendo debuttare servizi di video on demand sganciati dall’abbonamento alla pay-tv, andando a rinsaldare un comparto per il resto caratterizzato da alta frammentazione, volatilità e rendimenti ancora lontani da quelli dei “vecchi” modelli di distribuzione. La propensione degli italiani all’investimento in tecnologia e i numeri in aumento delle tv connesse (1,2 milioni di esemplari venduti nel corso del 2013 e un incremento ulteriore nel 2014), in un frangente di contrazione generale dei consumi, lasciano intravedere margini di crescita per il settore.

In questo quadro, preoccupa nel documento strategico del Governo sulla banda larga, messo in consultazione alla fine del 2014, la totale sottovalutazione della rilevanza strategica dei contenuti audiovisivi (di informazione, comunicazione ed intrattenimento) e del ruolo che essi stanno assumendo come driver di sviluppo dei servizi a banda larga ed ultra larga all’interno di uno scenario di piena convergenza.

Nel nuovo ecosistema digitale, l’industria dei contenuti rappresenta un vettore fondamentale per trainare l’offerta di servizi sulle reti di nuova generazione: lo confermano gli attuali trend di consumo, sempre più orientati verso “modalità attive” di visione, on demand, personalizzate e in mobilità. In un Paese in cui metà delle famiglie non dispone di un computer a fronte di una penetrazione elevatissima di tv e altri device, a cominciare da tablet e smartphone, qualche ragionamento in più per cercare di favorire un circolo virtuoso tra fruizione di contenuti audiovisivi e offerta di reti veloci sarebbe d’obbligo farlo. Un’altra sfida per le autorità pubbliche, da raccogliere in Italia e in Europa, è la definizione di un “level playing field”, cioè di regole comuni per il nuovo mercato in cui si verranno a confrontare una molteplicità di concorrenti e stakeholder, dai broadcaster alle compagnie del video on demand, passando per le telco, i marchi dell’elettronica di consumo e quelli dell’informatica. Un’asticella regolatoria troppo elevata per alcuni, in particolare telco e broadcaster, cioè i soggetti che investono di più rispettivamente in reti e contenuti “italiani”, rischia di impattare negativamente sulla crescita e di non fare neppure gli interessi di medio-lungo periodo dei consumatori.

È il tempo per legislatore e regolatore di ampliare i confini dei mercati rilevanti e dare modo a tutti di confrontarsi ad armi pari. E a quel punto, che vincano davvero i migliori.



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