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Quirinale, tutti i rischi delle candidature nate nelle sedi di partito

Reggerà il Patto del Nazareno anche alla prova del voto per il nuovo inquilino del Colle? Appare chiaro che questa volta a “dare le carte” sarà Matteo Renzi, premier e leader del maggiore partito. La sua leadership del PD è stata legittimata da uno schiacciante successo nelle primarie e ulteriormente consacrata da uno straordinario risultato nelle elezioni europee. E’ oggi sostenuto da un’ampia maggioranza all’interno degli organi collegiali del PD. Un PD che alla Camera dispone della maggioranza assoluta, al Senato di quella relativa e nel quale si riconosce gran parte dei delegati regionali. Nelle recenti europee, quando Renzi era già al timone, il partito ha conseguito molto più del doppio dei consensi di Berlusconi e per un soffio non ha doppiato anche i 5 Stelle.

Quindi il “rottamatore” fiorentino occupa una posizione di forza che raramente è toccata a un altro leader nella storia repubblicana. Ma il Presidente della Repubblica, per la funzione che svolge e anche in ragione dell’ampia maggioranza richiesta per la sua elezione, dovrebbe preferibilmente risultare espressione di un’ampia convergenza, oltrepassando anche i confini della coalizione di governo. Renzi, dunque, pur rivestendo un ruolo centrale nella ricerca del nome vincente, non può, naturalmente, sceglierlo da solo. La grande forza politica di cui oggi dispone costituisce, in qualche modo, anche una condizione di vulnerabilità.

L’idea dell’uomo solo al comando, ovvero dell’oligarchia consolidata, è sempre risultata un po’ ostica al nostro sistema politico. Il voto per il Quirinale diventa così, direi fisiologicamente, il momento propizio per solleticare gli impulsi di “destabilizzazione” che pervadono il Parlamento, quando un equilibrio di potere o di governo sembri cristallizzarsi. Il Patto del Nazareno evoca, nell’immaginario di molti, lo spettro del nuovo blocco di potere. Un blocco che l’elezione di un Presidente estraneo alle intese Renzi-Berlusconi potrebbe comunque scalfire e ridimensionare.

Tra i precedenti storici, quello che più, per certi aspetti, mi suggerisce il paragone con il quadro di oggi risale a sessant’anni fa: è l’elezione di Gronchi, nel 1955.

Pur nel mutato contesto e tenendo conto di aspetti sistemici profondamente trasformati, la posizione in cui oggi si trova Renzi richiama un poco quella che allora rivestiva Amintore Fanfani, segretario della DC, anch’essa, come il PD, partito di maggioranza relativa, attestata, all’epoca, attorno al 40% dei consensi elettorali. Toscano come Renzi e ancora piuttosto giovane – per i canoni della politica italiana -, l’economista aretino era anch’egli, in quel momento, l’uomo della modernizzazione e del rinnovamento, pur rivendicando l’eredità della linea degasperiana, ma in una prospettiva di aperture e adeguamento alle evoluzioni dei tempi. Con un’ampia maggioranza, ottenuta dalla corrente da lui guidata – la mitica Iniziativa Democratica! – nel Congresso democristiano di Napoli del giugno 1954, era divenuto il dominus della Balena Bianca.

Era volitivo, autorevole e forse anche un po’ autoritario nei rapporti all’interno del partito e si caratterizzava per uno sfrenato attivismo e una spiccata autostima. Però appariva fin troppo saldo in sella e forse destinato a restarvi a lungo, condizione che creava una certa inquietudine tra coloro che non lo amavano, dentro il partito e fuori. L’occasione per ridimensionarne il peso acquisito si presentò, appunto, con le elezioni presidenziali della primavera del 1955 che dovevano decidere chi sarebbe stato il successore di Luigi Einaudi.

Fanfani e la Dc designarono come proprio candidato ufficiale il Presidente del Senato Cesare Merzagora. Ma i “malpancisti” democristiani che non avevano digerito la vulcanica leadership dello statista aretino, così come quelli che invece nutrivano riserve, non sempre disinteressate, verso il governo centrista di Mario Scelba, allora in carica, aspettavano segretario e premier al varco. I parlamentari che si riconoscevano nelle correnti dc di minoranza iniziarono quindi a votare per il Presidente della Camera Giovanni Gronchi, facendo mancare i voti al candidato di Fanfani, Merzagora.

Il Presidente del Consiglio Scelba tentò allora, senza successo, una mediazione volta al simultaneo ritiro di Merzagora e di Gronchi e a una successiva convergenza sul nome del Presidente uscente Einaudi. Ma le opposizioni di sinistra (PCI e PSI) si unirono alle minoranze dc nel sostegno alla candidatura di Gronchi e così anche i monarchici, pure schierati all’opposizione del governo Scelba (costituito da democristiani, socialdemocratici e liberali, con l’appoggio esterno dei repubblicani). Vista la mala parata, Fanfani e la Dc fecero propria la candidatura di Gronchi che fu eletto al quarto scrutinio.

Il ricordo di questa elezione, benché lontana nel tempo, evidenzia i rischi delle candidature predeterminate nelle sedi di partito o tendenti comunque a blindare intese politiche. Se ci sarà un candidato del Nazareno, quindi espresso congiuntamente da Renzi e Berlusconi, dovrà guardarsi dalle imboscate parlamentari interessate a destabilizzare il tendenziale equilibrio, derivante dal Patto, che proprio nell’elezione di una figura gradita al premier e al leader di Forza Italia troverebbe la sua consacrazione e la sua stabilizzazione.


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