Più passano i giorni, più se ne conoscono i tempi e le modalità limitandosi alle cronache giudiziarie e politiche rimaste senza smentite o precisazioni, più il decreto fiscale varato alla vigilia di Natale, e poi ritirato da Matteo Renzi prima ancora che arrivasse alle Camere per i prescritti pareri, rischia di meritare l’aggettivo “osceno” affibbiatogli da Massimo Cacciari, senza arrivare al “fecale” espresso nei corridoi di Montecitorio con la solita volgarità goliardica da un deputato grillino attratto dalla rima con fiscale.
IL PERCORSO BIZZARRO
Gli aspetti istituzionalmente più inquietanti del decreto non riguardano quelli, tutti politici, della voluta o presunta applicabilità alla posizione giudiziaria di Silvio Berlusconi della depenalizzazione delle evasioni fiscali di cosiddetta modica quantità, indicata sino al 3 per cento dell’imponibile. No. Riguardano il percorso del provvedimento, contrario non si sa se più alle regole o al buon senso, e al buon gusto. Un percorso che da solo fa perdere la faccia al presidente del Consiglio, per quanti sforzi egli possa continuare a fare di salvarla con la spavalda assunzione di tutte le responsabilità, anche di quelle altrui, che pure esistono, eccome.
LA STRANA COMMISSIONE
Non fu lui, per esempio, ma il ministro dell’Economia in persona Pier Carlo Padoan, un supertecnico entrato persino nella rosa dei candidabili al Quirinale, ad affidare il compito della predisposizione del decreto a una commissione che “non è mai stata costituita ufficialmente”, come ha raccontato Mario Sensini ai lettori del Corriere della Sera. Una commissione della quale tuttavia ha accettato di assumere e svolgere la presidenza non un povero precario ma addirittura un giurista di provata esperienza e fama come Franco Gallo, già presidente della Corte Costituzionale.
IL CONSULTO DEI PM
Le indubbie competenze professionali, accademiche e giurisprudenziali di Gallo non sono tuttavia bastate ad evitare un altro passaggio a dir poco improprio dello schema di decreto: quello consultivo, riferito ai lettori della Stampa da Paolo Colonnello, negli uffici della Procura della Repubblica di Milano, in particolare in quelli di Francesco Greco, procuratore aggiunto e coordinatore delle indagini sui reati di natura finanziaria. Eppure Renzi ha sempre rivendicato prima e dopo l’arrivo a Palazzo Chigi il dovere, oltre che il diritto, della politica di riprendersi il “primato” nei rapporti con la magistratura, o almeno quella parte di essa che ha riempito così insistentemente e volentieri i vuoti lasciati dalla stessa politica da non volervi più rinunciare.
I RAPPORTI CON I MAGISTRATI TRA PAROLE E ATTI
D’altronde, lo stesso Renzi, a dispetto delle polemiche roventi con i magistrati sulle loro ferie e sulla pretesa di sfuggire nei fatti a quella responsabilità civile reclamata a larghissima maggioranza dagli elettori nel referendum del 1987, li insegue e incoraggia su terreni ai quali dovrebbero essere estranei. Fu proprio ad un magistrato in carriera, Nicola Gratteri, ch’egli tentò di affidare nel proprio governo il Ministero della Giustizia incorrendo nel clamoroso e doveroso diniego del presidente della Repubblica. I precedenti di Filippo Mancuso e di Francesco Nitto Palma, invocati dai tifosi di Gratteri, erano sbagliati. Mancuso divenne guardasigilli nel 1995 da magistrato in pensione e Nitto Palma nel 2011 da parlamentare dell’allora Pdl.
LA CONSULENZA DI GRECO
Anche del deputato del Pd con il quale, ad esplosione avvenuta del decreto fiscale di Natale, Renzi ha avvertito il bisogno più immediato di consultarsi, Marco Causi, è finita sui giornali, più che la indubbia competenza, la vicinanza o qualche passata collaborazione con il procuratore aggiunto di Milano: lo stesso Francesco Greco del passaggio voluto o permesso da Padoan. Un passaggio peraltro sfociato in un documento critico dei magistrati ambrosiani su uno schema di decreto ancora privo della norma di possibile applicazione a Berlusconi. Diversamente si sarebbe forse ripetuta la pubblica, intimidatrice e riuscita rivolta della Procura milanese del 1993 contro il decreto legge appena varato dal primo governo di Giuliano Amato per la depenalizzazione del reato chiave usato nella vicenda giudiziaria di Tangentopoli: il finanziamento illegale dei partiti.
LA COPERTURA TOGATA
L’abitudine di Renzi, e dei suoi amici, di cercare in qualche modo la copertura delle toghe nei passaggi difficili, contribuendo così allo squilibrio pur lamentato nei rapporti fra giustizia e politica, si è peraltro rivelata infettiva. Sindaci e governatori regionali, sulla falsariga di ciò che ha fatto il presidente del Consiglio con la nomina di Raffaele Cantone a presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, chiamano ormai i magistrati a fare gli assessori sui fronti amministrativi e politici che avvertono più rischiosi. E così la politica, avvolta nelle cinture di sicurezza appena raccomandate da Renzi, cammina nei rapporti con le toghe al passo o “ritmo”- direbbe lo stesso Renzi- del gambero.