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Quella volta che la CIA e il Mossad uccisero uno dei capi di Hezbollah

Era la serata del 12 febbraio del 2008, quando Imad Mughniyah uscì dal solito ristorante. Arrivato al parcheggio, neanche il tempo di entrare nel SUV che lo avrebbe portato nella sua protetta casa di Damasco, che una carica esplosiva posizionata in una ruota posteriore è esplosa uccidendolo sul colpo.

Mughniyah era il capo delle operazioni internazionali di Hezbollah (sulle sue spalle diverse decine morti), un quadro dirigente, uno dei massimi capi operativi del partito/milizia libanese. Della sua morte, il leader Nasrallah, ha sempre accusato Israele, ma ora, uno scoop di Adam Goodman e Ellen Nakashima uscito sul Washington Post, rivela che dietro al’uccisione del libanese ci sarebbe stata un lunga operazione congiunta e coordinata che ha coinvolto anche la CIA.

Funzionari che hanno parlato a condizione di anonimato con i giornalisti del WaPo ─ sarebbero almeno in cinque, perché nei giornali seri le fonti si verificano e si incrociano ─ hanno raccontato che l’ordigno è stato posizionato sul fuoristrada di Mughniyah proprio da una squadra black ops di Langley. L’onore di premere il tasto per la detonazione, è stato invece lasciato al comando del Mossad, a Tel Aviv, che lo attivato a distanza dopo che la squadra americana presente sul posto aveva eseguito il riconoscimento facciale e dato “semaforo verde”.

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Un’operazione lungamente studiata, con agenti che hanno pedinato il comandante di Hez e con un’equipe di tecnici che ha progettato, costruito e testato più volte la bomba utilizzata a Harvey Point, in North Carolina ─ struttura che la CIA usa per questo genere di lavori; è lì fu che ricostruita l’esatta copia del compound di Abbotabad dove si trovava Osama Bin Laden, per permettere ai Seals di imparare a memoria i movimenti del blitz. I servizi americani volevano fare in modo che il raggio di diffusione dei frammenti fosse il più stretto possibile, per evitare che colpissero altre persone nei paraggi, per questo prima di trovare quello giusto hanno costruito oltre venti ordigni ─ lo sforzo è valso, dato che nessuno è stato colpito dall’esplosione, a parte l’obiettivo.

Secondo alcuni commentatori, l’assassino di Mughniyah è stata l’operazione più pericolosa ─ dopo l’assalto a Bin Laden ─ condotta da negli ultimi anni dai servizi americani. Imad Mughniyah era un Most Wanted dell’FBI da diverso tempo. Su di lui pendono le accuse di coinvolgimento (come organizzatore, visto il ruolo che ricopriva) di alcuni tra i più efferati attentati che gli Stati Uniti hanno subito negli anni Ottanta e Novanta: le bombe all’ambasciata di Beirut (1983); il rapimento, la tortura, l’uccisione, del capo della stazione CIA in Libano, William Buckley (1984); il dirottamento del volo TWA 847 e l’uccisione di Robert Stethen, US Navy sub presente sul volo come passeggero (1985); il rapimento e l’uccisione, a Beirut, del colonnello americano William Higgins (1988); la pianificazione dell’attacco alle Khobar Towers in Arabia Saudita (1996) in cui morirono 19 militari statunitensi. Inoltre, Israele lo aveva sempre accusato di essere il pianificatore dell’attacco suicida all’ambasciata di Buenos Aires (1992) e di quello al centro ebraico della capitale argentina, in cui morirono 85 persone.

Tra le altre cose, si pensa che fosse lui a gestire, insieme agli iracheni, la formazione militare delle milizie sciite che negli anni successivi alla Guerra d’Iraq (2003), combattevano le forze americane in territorio iracheno. D’altronde è noto che Mughniyah fosse intimo del capo della Qods Force Qassem Suleimani, eminenza grigia iraniana nel Medio Oriente, nemico giurato israeliano e pure degli USA: uno dei funzionari americani ha raccontato che una sera, da quel ristorante, uscirono entrambi. “Volevamo, potevamo, colpire”, ma non avevamo l’ordine di uccidere anche il generale iraniano. Tra l’altro, ora Suleimani scorrazza su e già per l’Iraq, marchiando il territorio a suon di selfie, coordinando le forze irachene e le stesse milizie sciite che una volta combattevano gli americani, ora messe contro il Califfo. Tecnicamente, adesso, l’iraniano combatte dalla stessa parte degli occidentali la guerra contro lo Stato Islamico. Ma questo è un’altra storia.

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Gli Stati Uniti (e pure Israele) considerano Hezbollah un’organizzazione terroristica. Una volta, nel 2008, pochi mesi dopo la morte di Mughniyah, l’allora segretario alla Sicurezza nazionale Michael Chertoff disse che Hez faceva sembrare al-Qaeda «una squadra di lega minore».

Ma le controversi sull’operazione restano.

Ufficialmente, secondo le rivelazione, l’autorizzazione a procedere, un documento classificato, ha richiesto la firma del presidente (ai tempi George Bush) e del procuratore generale, del direttore dell’intelligence nazionale, del consigliere per la sicurezza nazionale e dell’Ufficio del Consigliere giuridico presso il Dipartimento di Giustizia.

Perché tutte questi passaggi amministrativi? Perché di fatto, si trattava di autorizzare uomini del governo americano a compiere un assassinio, oltretutto sul suolo di un paese straniero con il quale l’America in quel momento non era in guerra. Molti giuristi considerano le autobomba come un atto che esce dalle convenzioni internazionali, “killing by perfidy”. «Terroristi e gangster fanno esplodere le auto», ha commentato Mary Ellen O’Connell, che insegna diritto internazionale presso l’Università di Notre Dame al Washington Post. E in effetti, esiste un Executive Order (il 12333 del 1981) che vieta gli omicidi come operazione militare.

Tutto gira, però, intorno alla questione della “sicurezza nazionale”, unica contingenza che permette di eludere quell’E.O. ─ è stato così, per esempio, nel caso del terrorista yemenita con passaporto statunitense Anwar al-Awalki, uno dei principali ispiratori di al-Qaeda in Yemen, ucciso da un drone nel 2011.

«È abbastanza chiaro che il governo ha almeno una qualche autorità di usare la forza letale per autodifesa, anche al di fuori del contesto di un conflitto armato in corso», ha commentato al WaPo Stephen I. Vladeck, professore di diritto presso l’American University di Washington College of Law. E infatti, dopo gli attacchi dell’11 settembre, la concezione filosofica rispetto a certe operazioni è sostanzialmente cambiata ─ attualmente, in nome della sicurezza nazionale, il presidente Obama autorizza, spesso, attacchi letali con droni in Pakistan, Afghanistan, Somalia, Yemen, tutti Paesi con cui tecnicamente l’America non è in guerra.

E pensare che una volta gli Stati Uniti ripudiavano talmente tanto la via dell’assassinio che nel 1997 (era Clinton il presidente), condannarono l’azione israeliana ─ che invece di assassini mirati ne ha fatto e ne fa largo uso ─ contro il leader di Hamas Khaled Meshal. Quella volta un agente del Mossad avvelenò Meshal ad Amman, in Giordania, ma l’episodio si concluse con l’arresto della spia e la consegna dell’antidoto ai medici giordani, tutto sotto forte pressione di Washington.

Una storia ormai vecchia sei anni, quella di Mughniyah, che riaffiora. Un questione ancora aperta: è giusto, deliberatamente e in tempo di pace, uccidere un uomo, anche se ritenuto colpevole di atrocità mostruose? Uno dei funzionari dell’intelligence sentiti da Goldman ha commentato: «[L’operazione] non è stata un tripudio, abbiamo semplicemente fatto quello che dovevamo fare; e andiamo avanti».

@danemblog

(infografica Washington Post)

 

 


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