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Il club del voto plurimo che non piace al mercato

La scorsa settimana la finanza ha incrociato concretamente le strade con il socially responsible investing (Sri). Contro la misura del voto plurimo, infatti, si è mosso un gruppo di investitori “tradizionali” (cioè senza un cappello Sri ufficiale), i quali hanno firmato una pubblica mozione che, di fatto, è un richiamo a principi fondanti dell’investire responsabile. È una prova di come i criteri sostenibili toccano “in concreto” il business tradizionale. Per contro, chi non si fa “toccare” sono i soggetti più distanti dalla consapevolezza Sri: l’utilizzo della “scorciatoia” legislativa per introdurre il principio del voto plurimo è avvenuto proprio da parte di imprese per cui gli strumenti di responsabilità aziendale (tra cui il bilancio di sostenibilità) sembrano orizzonti ancora lontani.

La mozione pubblica è quella di non estendere a tutto il 2015 il termine (scaduto lo scorso 31 gennaio) entro cui le società potevano introdurre le cosiddette loyalty shares modificando lo statuto con maggioranze non qualificate, in deroga al quorum previsto (due terzi) per questo genere di variazioni. L’appello è stato lanciato attraverso una Dichiarazione congiunta sull’introduzione del voto multiplo nelle società quotate italiane indirizzata a tutti i responsabili istituzionali (Governo, Parlamento e Authority) e firmata da 20 investitori professionali internazionali con un patrimonio gestito superiore ai 7.500 miliardi di dollari, 93 professionisti, 22 sindaci o membri del consiglio di sorveglianza o consiglieri di amministrazione non esecutivi di società quotate (Eni, Enel, Bpm, Sabaf, Snam, Telecom Italia, Intesa Sanpaolo, Intek, Recordati, Cofide, Basic Net, Cir, Piaggio, Finmeccanica, Poste Vita, Sogefi, l’Espresso, Mittel, Unicredit, Ubi Banca, Autogrill, Assicurazioni Generali) e 9 società di consulenza per gli investitori..

Si fa riferimento alla norma introdotta nell’estate del 2014 (decreto Crescita) che «desta notevoli preoccupazioni – si legge nella Dichiarazione – dal punto di vista degli azionisti di minoranza: essa consente alle società quotate di concedere voto doppio a chi abbia posseduto le azioni per almeno due anni». L’obiettivo della norma era quello di scoraggiare gli investimenti di breve termine, favorendo quelli di lungo periodo (oltre i due anni, appunto). Il problema è che lo strumento ha forti controindicazioni in termini di rispetto dei diritti delle minorities, con conseguente grave danno della governance (vedi articolo Voto multiplo, un “nonsense” del mercato). La stessa “Dichiarazione” riporta la posizione di Assogestioni, la quale ha da subito messo in risalto l’inutilità dello strumento ai fini di un incentivo degli investimenti di lungo periodo, nonché l’iniquità dello stesso. Viene riportata anche la posizione, sulla stessa linea contraria, dell’International corporate governance network (Icgn).

La Dichiarazione, insomma, segnala che già abbastanza danno è stato fatto, consentendo questo gennaio di “libera uscita” alle società più intraprendenti. E che dunque, se già il voto plurimo è una cosa sindacabile, non è il caso che quanto meno il quorum agevolato venga prolungato oltre.

BRUXELLES REMA CONTRO

È interessante rilevare come il provvedimento italiano si confronti con tendenze europee che vanno nell’opposta direzione. A Bruxelles, infatti, è in atto la revisione della direttiva “Shareholders’ Rights” che regola, appunto, i diritti degli azionisti (piccoli). Anche in quella sede, un punto fermo è quello del combattere lo short-termismo, e incentivare investimenti di lungo periodo. Ma il principio non è quello di limitare i poteri delle minorities. Al contrario, si punta al loro più ampio coinvolgimento. La bozza di revisione del 14 dicembre, firmata da Sergio Cofferati, in qualità di rapporteur del Committee on Legal Affairs del Parlamento Ue, non sembra certo andare nella direzione di una blindatura del socio forte. Viceversa, si propone in molteplici casi l’allargamento della partecipazione nelle decisioni ai soci di minoranza se non agli stessi dipendenti (a cominciare dalle questioni di remunerazione). L’Eurosif, l’associazione europea degli investitori Sri, dal canto suo, in merito alle modifiche della Direttiva, scrive che «una strada per mitigare futuri fallimenti della corporate governance e per ridurre eccessi di short-termism sarà una promozione dell’engagement degli azionisti». Ossia, una spinta del coinvolgimento degli azionisti. Non della loro esclusione.

INDIPENDENTI E SOSTENIBILI

Un altro aspetto interessante riguarda il ruolo degli amministratori indipendenti. Appare un segnale piuttosto positivo il fatto che la dichiarazione sia stata firmata da una ventina di amministratori non esecutivi. Lo ha spiegato nelle scorse settimane nell’intervista a ETicaNews Paola Schwizer, presidente di Nedcommunity l’associazione che riunisce questo tipo di figure: gli indipendenti «saranno gli alfieri della Csr all’interno dei consigli di amministrazione», proprio in quanto devono agire a garanzia e tutela della buona governance, ergo mettere un paletto all’inseguimento di interessi di parte.

INSOSTENIBILITÀ CONDIVISA

È significativo, per concludere, indicare due tratti comuni delle quattro società che hanno usufruito della “scorciatoia” sul voto plurimo: Campari, Amplifon, Astaldi e Maire Tecnimont (in questo caso il voto ci sarà il 18 febbraio). Il primo tratto comune è che ognuna di queste società ha un socio di maggioranza oltre il 50 per cento. Il quale socio, con un’assemblea ordinaria, si è potuto così assegnare senza sforzo un voto multiplo che, più che incentivarne la fedeltà (visto che simili quote proprietarie sono comunque di lunghissimo periodo), ne blinda il controllo.

Il secondo tratto comune, almeno a giudicare da ciò che si trova online, è che nessuna delle quattro società presenta un bilancio di sostenibilità. C’è chi, come Campari, ci sta lavorando. Ma la Corporate social responsibility e i principi Esg (environmental, social and governance) non sembrano ancora fattori di cui, sin qui, ci si è preoccupati troppo.

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