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Costringere le banche popolari a mutare pelle è da regime dittatoriale. Parla Stefano Zamagni

“Ci sono dieci istituti, quelli più grandi, che hanno snaturato il concetto di banca popolare di una volta fondata sul solidarismo cattolico. Trasformarli in società per azioni può contribuire a toglierli di mano ai signorotti locali. Ai soliti noti legati a interessi territoriali e reticolati di amicizie”. Con parole nette pronunciate nel corso di Porta a Porta, Matteo Renzi ha confermato di essere pronto a porre la questione di fiducia sul decreto legge di riforma delle Popolari.

Un provvedimento che trova fortemente contrario l’economista Stefano Zamagni, professore dell’Università di Bologna tra i più autorevoli studiosi del mondo “no profit”. Componente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, e già alla guida dell’Agenzia per il Terzo settore, è stato uno dei consiglieri più ascoltati di Romano Prodi.

Matteo Renzi spiega che il modello italiano di banca popolare ha portato alcuni istituti “a combinare pasticci e a snaturarne l’originaria natura solidaristica”.

Il premier probabilmente fa riferimento a casi particolari che conosce. Non so se è in possesso di carte e documenti al riguardo. Io non di certo. Certo, a partire dal 1948 il lassismo, la pigrizia e l’avidità – che ritengo un vizio e peccato capitale – hanno provocato fatti esecrabili e fenomeni specifici di illegalità nel mondo delle banche popolari. Comportamenti spesso sottovalutati. Ma io preferisco attaccare il peccato piuttosto che il peccatore. Anche perché tutti quegli episodi hanno fatto dimenticare che vi era una “ferita originaria” da risanare.

Quale?

Fino alla seconda guerra mondiale le banche popolari erano imprese cooperative. Nel 1948 sono fuoriuscite da tale realtà mantenendo però il “voto capitario”, per cui la volontà di tutti i soci vale uno a prescindere dal capitale posseduto. Nel corso del tempo gli istituti creditizi legati al territorio e a carattere mutualistico non hanno mai chiesto di rientrare nella galassia cooperativa. Quindi da un punto giuridico esse non sono banche cooperative, pur avendone mantenuto uno dei 7 principi riconosciuti a livello mondiale: il “voto capitario”.

Gli altri principi del cooperativismo non sono stati applicati dalle Popolari?

No. Ed è su tali basi che il governo è intervenuto con decreto legge per modificare sul piano giuridico la loro fisionomia. All’inizio pensava di agire anche sulle banche di credito cooperativo, le casse rurali di una volta. Poi per fortuna ha attenuato la portata del provvedimento accettando più miti consigli.

Non condivide nulla dell’iniziativa di Palazzo Chigi?

No. Prima di tutto perché manca l’urgenza a fondamento di un decreto legge. Il vero problema è decidere se la “biodiversità finanziaria” è un valore meritevole di salvaguardia. Soprattutto per il capitalismo italiano che storicamente è stato costruito sul pluralismo economico.

Lo storico dell’economia Giulio Sapelli parla di “golpe contro le Popolari realizzato da un premier soggetto a una pressione molto forte dell’oligopolio finanziario internazionale”.

Se scompare tale biodiversità è chiaro che le nostre Popolari diventerebbero preda delle “Sette sorelle”, le grandi banche d’affari straniere. Ma non voglio pensare che tutto ciò abbia avuto l’avallo del governo. Preferisco parlare di grave errore di miopia politica.

Cosa dovrebbe fare l’esecutivo?

Porre alle banche popolari un’alternativa secca. Rientrare nell’assetto cooperativo e rispettare la legislazione del settore. Oppure accettare una regolamentazione che le allinei alle banche commerciali di tipo capitalistico. È necessario concedere alle assemblee delle Popolari un tempo congruo per decidere. A quel punto si vedrà se prevale o no lo spirito cooperativo degli albori. Sarebbe la “prova del fuoco”.

Il decreto legge governativo non rientra in questa filosofia?

L’esecutivo ha voluto utilizzare un provvedimento di urgenza per imporre alle banche popolari l’obbligo di cambiare natura e identità. Tutto ciò non è accettabile in una democrazia liberale. È tipico di un regime dittatoriale. Il governo può stimolare e incentivare, offrendo la facoltà di scelta. E promuovendo un bel confronto aperto, nelle assemblee dei soci anziché nel chiuso dei palazzi. A partecipare poi dovrebbero essere persone che hanno un volto e un’anima. Persone capaci di parlare in pubblico dei valori in cui credono.

Le sue parole riflettono un legame profondo con il cooperativismo creditizio di matrice cattolica

E lo rivendico con orgoglio. La battaglia da intraprendere è riportare le banche popolari entro l’alveo del credito cooperativo, che non può essere colpevolizzato. Perché neutralizzare la biodiversità economico-finanziaria è contro la libertà. Come nell’arena politica, anche nel mercato non può esistere un unico modello di impresa.

È fiducioso in una correzione profonda del testo da parte del Parlamento?

Me lo auguro, alla luce delle prese di posizione politicamente trasversali contro il provvedimento del governo. Prova eloquente che non si tratta di un problema di destra e sinistra.

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