Senza dubbio Matteo Renzi ha dimostrato una formidabile abilità di manovra nel portare al Quirinale Sergio Mattarella mettendo alle corde Silvio Berlusconi grazie alla minoranza Pd, subito dopo avere messo alle corde – sulla riforma elettorale – la minoranza Pd grazie allo stesso Berlusconi. I suoi comportamenti, certamente non illegittimi in politica, però pongono qualche interrogativo. Innanzi tutto: ha un’idea di che cosa fare di tutte le macerie che sta accumulando? Dai sindacati a più in generale l’associazionismo, dall’umiliazione dell’opposizione responsabile a quella degli alleati di governo, dal disprezzo per i suoi a quello per gli enti territoriali, dall’indifferenza per le partite iva a quella per le banche popolari: non mi pare che s’intraveda non dico un suo progetto ma anche solo una visione adeguata alla portata degli atti distruttivi in atto.
Da qui un’altra domanda: su quali reali basi sociali sostiene la sua corsa sfrenata a un’influenza tanto più ampia quanto sempre più indeterminata?
La sensazione è che oggi quel che regge l’azione renziana non sia il rapporto con questa o quella parte della società italiana, quanto l’investimento che articolati ambienti angloamericani hanno fatto su di lui per contenere lo strapotere di Berlino. Lo svuotamento dall’alto della politica italiana compiuto sistematicamente da Giorgio Napolitano dal 2010 in poi ha preparato questa sorte di rivoluzione passiva renziana passando da un semicommissariamento gestito in condominio da tedeschi e americani a uno sponsorizzato oggi solo sostanzialmente da Washington (e Londra).
Da qui una sorta di mandato che di fronte a una politica sbandata per demeriti propri – oltre che per sapienti usi di spread e manette – offre larghissimi spazi di azione a colui cui vengono graziosamente offerti “dall’alto e dall’estero”.
Le rivoluzioni passive non di rado provocano guasti strutturali, le guide dall’alto specie di società complesse si imbattono frequentemente in ostacoli possenti e imprevisti, gli articolati ambienti angloamericani che sostengono la new wave italiana paiono oggi ragionare molto sul breve periodo: però anche il costituire un’alternativa a quella subalternità alla mediocre egemonia tedesca a cui ci aveva introdotto Carlo Azeglio Ciampi e a cui sottostava sostanzialmente Napolitano, dà qualche chance a Renzi e giustifica anche alcune aperture, pur se spesso maldestramente gestite, del (peraltro disperato) Berlusconi.
Però mentre si può scusare il quarantenne fiorentino perché l’inebriante sapore del successo gli fa per il momento scordare la complessità dell’impresa in cui si è lanciato e il ritmo prevale in lui sul concetto, chi sta all’opposizione ed è magari minacciato sia nella libertà sia nelle aziende avrebbe l’interesse a esercitarsi in un’analisi della situazione un po’ meno approssimativa. Dovrebbe lasciar perdere le retoriche da due cuori e una capanna, i patti d’acciaio, i percorsi studiati per filo e per segno (come certificano Denis & Gianni): e ragionare realisticamente (con anche un pizzico di malizia).
Se così si fosse fatto innanzi tutto si sarebbe dovuto puntare a votare con il Consultellum il più presto possibile perché questo Parlamento delegittimato produce più trappole che soluzioni. Così magari si sarebbe anche aperto un percorso di ben più solido riformismo istituzionale, e in questo senso pur eventualmente accettando i compromessi imposti da Renzi si sarebbe potuto rivendicare l’apertura ufficiale di una riflessione seriamente costituente con annessa ammissione che i pasticcetti messi insieme su province e senato, sistema elettorale e (presto) regioni possono essere accettati in una fase d’emergenza ma non rappresentano soluzioni all’altezza di una società e di uno Stato moderni. Insomma era necessario porre la questione della legittimazione non mettere al centro della politica i parlamentari che si vogliono salvare la pensione, e aprire e non chiudere una fase costituente.
Invece tra mille pragmatismi forse inevitabili ma sempre di corto respiro e deliranti scenari idilliaci, si è voluto rimuovere la complessità della situazione. Figlio di questa rimozione è “il capolavoro” della tattica sul Quirinale: a un certo punto ci si è persino convinti che vi fosse veramente una diarchia Renzi- Berlusconi/ Ncd capace di guidare la prossima fase di governo dell’Italia e addirittura che il duo Silvio–Angelino potesse incalzare Renzi trattando con gli americani (che per esempio con l’ambasciatore John Philips avevano preferenze per Giuliano Amato) e persino con Pierluigi Bersani: si è scambiata una qualche perplessità tattica del premier per una suo vero e proprio stallo. E si è così consentito a Renzi di utilizzare tutta la propria potenza (che gli viene dal mandato “dall’alto”) per prendere in mano la situazione compattando il Pd, ridicolizzando Angelino Alfano e umiliando Berlusconi.
Un’altra linea di comportamento sarebbe stata possibile solo sulla base di un’analisi realistica: il Quirinale è diventato ancora più nettamente dopo il ’92 il principale luogo delle mediazioni delle influenze straniere (dal 2014 primariamente angloamericane) con lo Stato italiano. Queste influenze si esercitano innanzi tutto con due fondamentali pressioni: una, sulla sfera economica, di resistenza (ma non di aperta contrapposizione) all’austerità tedesca in coordinamento con Draghi, l’altra, sulla sfera penale, di (encomiabile) lotta alla corruzione che intralcia i mercati e alle mafie così pericolose per la loro globalizzazione. Vi è però anche un lato meno nobile di queste “due pressioni” che riguarda il loro collegarsi a influenze improprie rivolte contro i nostri interessi nazionali grazie a varie “aspirazioni” di intervento (da Eni a Finmeccanica all’apertura asimmetrica di certi settori del credito): influenze improprie che vengono perseguite sia con pressioni economiche sia con articolate pressioni “penali”.
Se invece di andare dietro la farfalla Amato si fosse analizzato questo sistema concreto di pressioni, la scelta migliore sarebbe stata quella di mettere al Quirinale un ambasciatore di Draghi meno ingombrante per la nostra democrazia di personalità dal grande valore morale concentrate più sul coordinamento di un fronte repressivo che meglio sarebbe affidare al governo. Rispondendo in questo modo anche ai problemi della vera costituzione materiale (i rapporti finanziari) che ci determina piuttosto che dare la preminenza a ordinamenti costituzionali già in difficoltà nella Prima repubblica e ora divenuti per certi versi surreali.
Non si è fatto. E ora ci si dovrà confrontare con un cumulo di macerie a destra ancora più consistente di prima: in questo senso c’è la possibilità che in Italia si determini un effetto simmetrico a quello del Pasok in Grecia (il grande partito socialista della dinastia dei Papandreu diventato subalterno alla destra di governo e così passato dal 36 per cento al 6 per cento in sei anni) e che decolli (magari con prospettive vincenti: perché nessuno è in grado di prevedere che cosa succederà nei prossimi due anni in Europa fino alle presidenziali francesi) uno Tsipras di destra (e così a occhio per questo ruolo ha più probabilità Matteo Salvini di Corrado Passera). Anche se qui da noi, oltre allo spread e alle manette, c’è anche l’invenzione nel 2006 della Casta anti-Casta prodotta da due furetti della scena nazionale come Paolo Mieli e Luca Cordero di Montezemolo per svuotare una protesta populista concreta e alimentarne una dadaista alla Beppe Grillo. E quindi i percorsi (vista una posta in gioco per l’Occidente come l’Italia) siano parecchio più accidentati di quelli di una marginale Grecia.