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Festival di Sanremo, le melense canzoni d’amore che raccontano l’Italia

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Sono le canzoni che ci fanno capire, molto più dell’Istat, i mutamenti socioculturali del Paese. Musicisti, parolieri e cantanti esprimono i valori del tempo, il malessere e le speranze delle masse, le tensioni e i conflitti della nazione. Belle époque, ecco «Torna, caro ideale» di Tosti (1882); avventura coloniale, ecco «Tripoli italiana» della Garisenda (1911); angosce esistenziali, ecco la crudele «Vipera» (1919) di Frangi; consenso al fascismo, ecco la familistica «Reginella campagnola» (1938) di Buti; entusiasmo della ricostruzione, ecco «Avvinti come l’edera» (1954) della Pizzi; conflitti sociali, ecco «Contessa» di Pietrangeli (1966); evasione narcotica, ecco «Siamo solo noi» di Vasco Rossi (1981).

Di questi mutamenti Sanremo è da 65 anni il termometro più sicuro. Negli ultimi decenni non vi sono mancate denunce e polemiche sociali e anche politiche, che fotografavano lo sfacelo del Paese: l’economia un disastro, la famiglia una prigione, la scuola un ente inutile, la politica affarismo, il welfare una frana. Poi la protesta si è a poco a poco afflosciata e spenta, tanto a cosa serve? Ed ecco allora rinascere l’amore. Soprattutto quest’anno. Quasi tutte le 20 canzoni ammesse sovrabbondano di amore.

Certo, con un presentatore così buonista e melenso come Carlo Conti, non poteva andare diversamente. Anche, ma c’è qualcos’altro. C’è l’amara sfiducia nel recupero, il menefreghismo per la politica, la marginalità giovanile, il timore che, tanto, dalla melma non usciremo («niente è per sempre, il mondo esplode tranne noi»). Raro, tuttavia l’amore romantico: «Morire in un tuo bacio, senza respirare, solo nel tuo abbraccio sono libera»; «La mia risposta sei tu, vorrei che fosse per sempre, come una favola».

Per lo più, realisticamente, le canzoni fanno capire che «amore» è solo una parola dolce per dire sesso. Quasi sempre è il rapporto, inevitabilmente effimero («è solo un sogno e non è stato male») tra due disperati («una mattina sei uscita e non sei più tornata»). Essi cercano e trovano un rapporto casuale, che li ripaga di una vita grigia («un amore al di là dei nostri limiti»), ripetitiva e in fondo priva di senso («so che non serve a niente, però io ti amo mentre muoio»). Anche perché i sessi si sono confusi e il festival, con la canzone «Io sono una finestra», scopre il «gender»: «Dentro di me non c’è una donna o un uomo, ma solo un essere umano».

Il revival dell’amore è la reazione alla perdita dei valori permanenti («baciarti e poi scoprire che l’ossigeno mi arriva dritto al cuore»), è figlio della vita alla giornata, è un gioco scanzonato e artificiale («ci siamo presi a pugni e baci fino a ridere»). Un amore fugace, certo, ma sempre meglio che niente: «I morsi della carne, la vita che si slaccia». Del resto, che cos’è il «fare sesso» se non l’unica traduzione sincera e reale dell’amore? Anche Marco Masini, già arrabbiato cantautore del «Vaffanculo» e della «Bella stronza», ora si esprime con pacatezza: «Niente vale niente, ricominciare come la prima volta».

La canzone «Vita d’inferno», dei Soliti Idioti, esprime un pessimismo leopardiano-pop. La vita non è dono, ma casuale incidente: «Io sono vivo per la rottura di un preservativo, vita d’inferno, se lo sapevo prima, rimanevo dentro l’utero materno, fortuna che non dura in eterno». La Rai «di tutto e di più» vi ha lasciato la parola «preservativo», certo fondamentale per l’educazione sessuale nelle scuole; ma c’era anche il «giramento di coglioni»: il giramento è rimasto, ma la brutta parola è stata tolta, forse in nome del diritto d’autore.

Dal festival esce tuttavia una fotografia precisa del mondo giovanile. Sbandato e sventato, svagato e sconcertato, ma anche sincero e nostalgico, consapevole del vuoto e desideroso di ritrovare dei fondamenti di autenticità. Come potrebbe andare diversamente? Abbiamo perso successivamente tre padri, quello celeste, quello politico e quello carnale: Dio decapitato da Kant e il Re da Robespierre (come cantava Carducci), il terzo fatto fuori dalla alleanza di libertinismo e scienza neutrale. Proclamato sempre prima maturo in tutto e libero dalla dipendenza dai genitori, il giovane purtroppo non ha i mezzi per poterlo essere nella realtà e quella generazione, che a parole doveva essere una lepre, nei fatti è una lumaca.

Per fortuna non ha perso l’attesa nostalgica di ritrovare dei valori autentici. Anche se, per ora, li esprime soprattutto negativamente, descrivendone la perdita. Come nelle canzoni di Sanremo, dove tutto è amore che viene, va e ritorna, ma non c’è alcun riferimento alla famiglia e ai figli. Due cose che la crisi economica e ancor più la mentalità narcisistica rendono quasi impossibili.


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