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Il paradigma Kirkuk

Kirkuk è una cittadina iracheno che conta circa 700 mila abitanti. Si trova nel nord del Paese, praticamente in continuità alla regione indipendente del Kurdistan, e per questo il suo governatorato è tra quelli rivendicati dal governo locale di Erbil ─ gli altri, per tutto il territorio o per parte, sono Ninive, Diyala, Salah al Din e Wasit. In realtà, di fatto, sarebbe curda dal 2003, ma è amministrata dal governo centrale iracheno, che ha puntualmente rinviato per anni il referendum per la sua attribuzione definitiva (avrebbe perso, visto che i curdi, insieme ai turcomanni, sono l’etnia principale).

Kirkuk è importante per i curdi, ma pure per Baghdad: il suo territorio ospita uno dei principali giacimenti di petrolio dell’Iraq. Su al nord, si sa, che Kirkuk significa il “petrolio dei curdi”, così come Mosul quello degli arabi. Quando nel giro di poche settimane, all’inizio della scorsa estate, lo Stato Islamico ha preso Mosul, i peshmerga curdi si sono visti costretti all’intervento: dovevano scegliere se dirigersi a nord (Mosul) o a sud (Kirkuk). Hanno scelto di scendere verso la città dove la propria etnia era più rappresentata ─ i curdi a Mosul sono un 20%, contro il 65-70 di Kirkuk─, e hanno preso in contropiede il Daesh (ormai noto dispregiativo arabofono per l’IS) e pure americani e iracheni. Le armate dell’esercito centrale di Baghdad, si sono dissolte in entrambe le città, lasciando un vuoto di potere dove da una parte il Califfato e dall’altro i crudi, si sono infilati senza troppi combattimenti ─ le forze occidentali, ancora, ai tempi, non erano troppo organizzate.

E così, Kirkuk, adesso, è una città sotto il controllo curdo: e pure il suo petrolio, che qualcuno sostiene potrebbe essere l’alternativa alla dipendenza europea da Gazprom ─ anche se i pozzi sono vecchi, senza manutenzione, e danno una produzione zoppicante. C’è un’immagine che rappresenta l’importanza geopolitica della città. Quando Ahmet Davutoglu, attuale primo ministro turco, vi si recò in visita da (allora) ministro degli Esteri, nel suo intervento parlò in curdo: un reato che ai tempi delle persecuzioni di Saddam avrebbe significato la galera (trattamento analogo lo avrebbero riservato i turchi). E il governatore, che vive in una casa-fortezza nella città (che fu di Ali “il Chimico” di Saddam), è un cardiochirurgo curdo-americano, tanto per capirci sugli interessi in ballo.

La chiamano la Gerusalemme curda: una volta Adriano Sofri scrisse che Kirkuk «è uno scrigno del tesoro, ma allungarci sopra le mani può voler dire vedersele mozzate».

I curdi presidiano i luoghi di ingresso al nucleo cittadino, mentre tutto intorno l’IS pressa. Quindici giorni fa, gli uomini del Califfato hanno lanciato un attacco simultaneo in quattro distretti cittadini, che è stato respinto dai peshmerga (con la morte di un generale di brigata, però) e dai raid aerei della Coalizione.

Non è solo il Califfo a volere Kirkuk. Il governo iracheno ha capito che occorre fare in fretta, prima che una sorta di usucapione post-bellica, garantisca ai curdi il definitivo controllo del ricco governatorato. Per questo sta inviando gruppi appartenenti alle milizie sciite lealiste, ufficialmente per imbastire una campagna di arruolamento nella Guardi Nazionale ─ ma è chiaro che il motivo è un altro. Masud Barzani, il presidente del Kurdistan iracheno, ha ufficialmente respinto la proposta di Baghdad, perché sa che significherebbe la possibilità che Kirkuk torni all’amministrazione centrale. Il PDK, principale partito curdo, appoggia Barzani, mentre il PUK, partito storicamente più vicino all’Iran e dunque tendenzialmente allineato sull’asse sciita Teheran-Baghdad, ha invece accettato la collaborazione.

Le milizie sciite non sono accettate in larghe parti del Paese, non solo in Kurdistan ─ dove rappresentano la mano lunga del governo centrale. Dall’inizio delle ostilità, queste squadre combattenti fedeli agli esecutivi sciiti di Baghdad, dirette (e addestrate) da dietro dagli iraniani e rimpolpate da foreign fighters che hanno aderito alla chiamata dei chierici contro i “takfiri” del Califfo, hanno compiuto spesso atti indecorosi. Per esempio la Brigata Badr, guidata da Hadi al Amiri ─ uno di quelli che ha reagito più duramente all’opposizione di Barzani su Kirkuk ─, è nota per il duro trattamento che riserva ai sunniti. Rappresaglia e settarismo, che spesso si sono sommati in catture, torture, e pure uccisioni contro i sunniti filo-IS ─ sullo sfondo, l’iniziale apertura che le tribù sunnite irachene, avevano riservato all’organizzazione di Baghdadi.

La vicenda di Kirkuk è un buon paradigma per descrivere quello che sta avvenendo in Iraq. Uno «schieramento frastagliato» lo ha definito Guido Olimpio del CorSera, dove ognuno segue la propria agenda, difende i propri interessi, sceglie avversari e nemici. Se i curdi fossero coesi, Kirkuk potrebbe restare al Kurdistan, una sorta di bottino di guerra, che Iraq e Occidente potrebbero anche riconoscere al popolo di Barzani come tributo per l’impegno profuso contro l’IS. Ma realisticamente non sarà così: le spaccature interne al mondo curdo sono una realtà storica, divisioni tribali mascherate da lotta politica, che affliggono un popolo che ha in comune soltanto l’infinita persecuzione subita. E negli spazi di discontinuità, il governo di Baghdad sa che potrà infilarsi per destabilizzare la situazione e riportare l’importante asset-Kikuk sotto il proprio controllo.

Un panorama che conferma l’infinita difficoltà nell’intervenire in luoghi dove, per riprendere ancora Olimpio, spesso «il liberatore si comporta come l’occupante».

@danemblog



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