Dopo l’assassinio del suo top gun, la Giordania ha avviato ieri un’intensa rappresaglia aerea sui territori controllati dall’Isis, arrivando a “non escludere” la possibilità di inviare anche truppe speciali di terra per operazioni contro gli uomini guidati da al-Baghdadi. L’omicidio del pilota giordano, arso vivo in una gabbia, ha spinto i vertici della prestigiosa università al-Azhar del Cairo a condannare i jihadisti. Ma sono ancora troppe le contraddizioni che permangono nel mondo arabo e anche nella politica adottata dal mondo occidentale.
A spiegarlo in una conversazione con Formiche.net è lo scrittore e giornalista Carlo Panella, firma del Foglio e di Libero, che analizza la risposta giordana al Califfato e l’evoluzione della coalizione anti-Isis. E sulle mosse di Obama in Medio Oriente dice che…
Qual è il ruolo della Giordania nella coalizione anti-Isis e, più in generale, nella lotta al terrorismo islamico?
Quella hashemita che governa la Giordania dal 1920 è da sempre l’unica élite araba impegnata fino allo spasimo in un tentativo di rapporto pacifico, anche se duro, con l’Occidente. Va anche detto, però, che questa élite deve fare conti con alcuni aspetti conflittuali. La Giordania è il solo Paese arabo, assieme alla Tunisia, in cui non c’è petrolio. Deve per questo fare fronte a difficoltà economiche. Inoltre ha dovuto sopportare il peso di milioni di palestinesi dal 1948. Ciò ha prodotto un suo naturale impegno nella coalizione. Un impegno che però risente del fatto che la coalizione non ha una strategia.
Cioè?
Noi occidentali abbiamo dichiarato guerra al Califfato, ma non la facciamo. L’impegno con i soli bombardamenti aerei è demenziale, perché non siamo di fronte a un nemico che ha struttura statale consolidata. Per colpa di Obama non abbiamo nemmeno sul campo una minima rete di informatori per sapere con precisione dove bombardare. Questo vuol dire che si riesce a danneggiare le milizie dell’Isis unicamente quando ce le si trova di fronte.
Perché gli Usa non vogliono uomini sul campo?
Obama sta subordinando ogni piccola azione alla stipula dell’accordo con l’Iran. Per fare seriamente la guerra ai jihadisti ci sarebbe bisogno di una coalizione come quella messa in piedi da Bush padre nel 1990, un gruppo che tenga insieme sul serio e sul campo gli eserciti della regione, con il benestare della Lega araba. Ma se ciò accadesse, Teheran si irriterebbe, considerandola un’operazione per rafforzare i Paesi sunniti. E l’accordo sul nucleare salterebbe. Il presidente americano considera irrinunciabile questa intesa e per ottenerla, come spiega oggi il Washington Post, è disposto anche a stipulare un accordo volutamente perdente, che scarichi sul suo successore la possibilità che Teheran si doti dell’atomica.
Torniamo alla Giordania. Come cambierà la strategia di Amman dopo la morte del pilota arso vivo? Il suo impegno nella coalizione è a una svolta?
Non ci sarà nessuna svolta, semplicemente perché – come detto – non c’è nessuna coalizione. L’assassinio di Muath Kasasbeh ha sì importanti riflessi, ma sul fronte interno. Dimostra che la scelta di re Abdullah di combattere l’Isis si è rivelata saggia. Il monarca godeva già di grande consenso, perché ha saputo offire al suo popolo elementi di democrazia. Poi però si è ritrovato a gestire una guerra che il suo Paese comprendeva poco, anche se può contare su quello che è forse l’unico vero esercito del mondo arabo. Ora, dopo l’esecuzione del pilota, ha il consenso popolare anche per fare questa guerra. Anche se non la può fare, a causa della situazione che ho descritto prima. Da sola è escluso che possa condurre un’azione di terra contro i jihadisti e la stessa coalizione si sta sfaldando, dopo il passo indietro degli Emirati arabi uniti, che hanno deciso di non partecipare più ai bombardamenti.
La condanna dell’università cairota al-Azhar alle violenze dell’Isis rappresenta uno spartiacque nel mondo islamico?
No, al contrario. Non era nemmeno la prima volta che il jihadismo veniva condannato, ma il tema è un altro. Il grande imam del centro teologico – il maggiore di tutto il mondo sunnita – ha detto che i jihadisti del Califfato andrebbero “crocifissi” e bisognerebbe tagliare loro mani e piedi. Parole che dimostrano come non esista affatto un islam moderato e che la sua risposta all’estremismo non è poi così diversa nei metodi da chi si dichiara di voler combattere. Non se ne parla spesso, ma Mahmoud Mohamed Taha è stato un teologo sudanese riformista e fondatore di un movimento politico filo-democratico. A metà degli anni ’80 fu impiccato come apostata per aver affermato la necessità della separazione tra religione e Stato. L’Islam, purtroppo, è ancora questo.