La mossa con cui i vertici dell’università al-Azhar del Cairo hanno risposto alla barbarie dello Stato Islamico è senza precedenti e sta producendo una reazione a catena nel mondo musulmano.
UNA REAZIONE NECESSARIA
Ahmed Al Tayyeb, il grande imam del centro teologico – il maggiore di tutto il mondo sunnita – ha smosso le coscienze dei fedeli, spiegando che i jihadisti del Califfato andrebbero “crocifissi” e bisognerebbe tagliare loro mani e piedi. Una reazione dura, resa necessaria dall’imprevedibile e scioccante caso del pilota giordano arso vivo.
MEDIO ORIENTE DIVISO
Tuttavia, scrive Alberto Negri sul Sole 24 Ore, “prima che il Medio Oriente generi altri mostri, bisogna interrogarsi” sul fatto che “gli stati arabi non sono in lotta soltanto fuori dai confini, ma dentro le loro stesse società… soffocate da monarchie o autocrazie che oscillano tra la tentazione di usare la dittatura come barriera al disfacimento e timide aperture liberali“. E che in alcuni casi, come quello di Paesi sunniti come Qatar e dell’Arabia Saudita, abbiano spesso avuto nei confronti dei jihadisti un atteggiamento ambiguo, se non affine. Questi Stati, già in difficoltà sul fronte interno, si sono uniti contro l’Isis, ma l’obiettivo dello Stato Islamico, prosegue il quotidiano di Via Monte Rosa, è proprio “di esporre all’opinione pubblica delle nazioni della coalizione la debolezza di questa alleanza, che non è un fronte compatto“. L’orrore del Califfato, crede Negri, “fa parte delle tattiche per trascinare il Medio Oriente nel gorgo della barbarie… e indebolire il fronte degli Stati arabi che per un momento sembra compattarsi e poi si sfalda di nuovo quando vengono alla luce le laceranti contraddizioni delle potenze regionali“. Senza contare che gli uomini di al-Baghdadi vogliono mostrarsi “come gli autentici protettori dei sunniti contro gli sciiti in Mesopotamia“.
UN PASSO IMPORTANTE
In questo quadro si inserisce la “scomunica” dei terroristi da parte di al-Azhar. Ma perché è così importante? Come ricorda Panorama, con un network annuale di quasi 300mila iscritti, l’università “vanta tra i suoi alumni intellettuali e illuminati, ma anche esponenti di spicco della leadership politica e militare” di vari Stati musulmani. “Al-Azhar vanta inoltre innumerevoli esponenti di movimenti islamisti e organizzazioni paramilitari… oltre a tanti ideologi ed esperti religiosi radical-conservatori che alimentano il fondamentalismo islamico nel mondo“.
UN CAMBIO DI ROTTA
Certo, sottolinea dalle pagine di Avvenire un esperto come Massimo Redaelli, “le massime autorità” del centro “hanno sempre condannato gli estremismi e il terrorismo di al-Qaeda o dell’autoproclamato califfo al-Baghdadi, e hanno più volte aperto spiragli al dialogo religioso“. Ma stavolta c’è qualcosa in più. La “profonda indignazione” espressa per questa azione anche dal mondo sunnita, rivela “uno sforzo diretto e intenso contro le cattive interpretazioni dell’islam, che incitano alla violenza e alla chiusura dinanzi alle altre comunità“.
FUORI DALL’ANGOLO
Fino ad ora, pur nella condanna della violenza, ad al-Azhar avevano prevalso le voci a sostegno della tradizione islamica più rigida, spesso, commenta il professore di Geopolitica dell’università Cattolica di Milano, “autoconfinate nel rispetto formalistico della tradizione (il taqlid, l’imitazione), apparentemente incapaci di muoversi da una prospettiva che non sia islamico-centrica“. Un equilibrio che, invece, pare spezzato, nella consapevolezza che la guerra contro gli incendiari e i tagliagole dal drappo nero può essere vinta solo con la fermezza.
IL CASO GIORDANO
Una fermezza che fino a ieri sembrava mancare persino nelle tribù giordane, dove serpeggiavano simpatie ben nascoste nei confronti dell’Isis. La decisione di re Abdullah di prendere parte alla coalizione internazionale contro l’Isis non era stata particolarmente popolare in Giordania, finora. E la tattica usata dai jihadisti, in fondo, era chiara: usare il pilota Muadh al-Kasasbeh nelle loro mani, per minare l’unità della coalizione e umiliare il governo di Amman, considerato troppo filo-occidentale. Un piano da realizzare sfruttando il sentimento avverso delle tribù del Paese o addirittura spingendole a ribellarsi apertamente. Il suo assassinio, ha ottenuto però l’effetto contrario, compattando la popolazione e dando nuovo slancio alla leadership del monarca giordano e al suo impegno nella coalizione internazionale contro il Califfato. Con il Paese sotto choc per l’esecuzione del suo top gun, Amman sta valutando la possibilità di inviare truppe di terra contro l’Isis, dopo aver giustiziato la terrorista Sajida al-Rishawi e aver bombardato ieri Mosul. Si tratterebbe di un’operazione lampo, che secondo il quotidiano giordano Al-Arab Al-Yawm aprirebbe a un cambio di strategia.
UNITI CONTRO LA BARBARIE
D’Altronde, come rileva il New York Times, quello giordano non è un caso isolato. Il senso di unità anti-Isis si sta spargendo a macchia d’olio in tutta la regione. Oltre agli Stati islamici che già partecipano in via ufficiale o ufficiosa ai raid contro il Califfato, condanne arrivano dal governo siriano e dall’Egitto, dove Fratellanza musulmana e Al-Sisi sono finalmente d’accordo su qualcosa. È questo il segno più tangibile del cambiamento in atto.