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Libia, come cresce il fronte di chi vuole un intervento militare

La Libia sarebbe presto divenuta terreno fertile per gruppi fondamentalisti, una sorta di “Woodstock del terrorismo”, allarmò a maggio scorso il Daily Beast.

A distanza di mesi, le parole di Eli Lake si sono rivelate profetiche. Non bastassero le milizie che dalla caduta di Gheddafi si contendono il governo e le risorse energetiche di Tripoli, sul Paese si sono allungate le mani dei jihadisti dell’Isis.

Il Califfato è arrivato prima a Derna, piantando a novembre la sua prima bandiera nera nel territorio dello Stato nordafricano e attraendo a sé Ansar al-Sharia, cellula terroristica ben armata, finora nell’orbita qaedista, presente anche nella capitale, o almeno di quello che ne resta. Poi una serie di attentati, come quello del 27 gennaio all’Hotel Corinthia, frequentato prevalentemente da diplomatici e politici.

Ieri una nuova doccia fredda: i terroristi islamici hanno rivendicato la presa sotto il loro controllo di due stazioni radio locali e una tv governativa a Sirte, 500 chilometri a Est di Tripoli, dove hanno installato anche il loro quartier generale.

L’ASCESA DELL’ISIS

L’allerta è massima. In due settimane, ricorda Francesco Battistini sulle pagine del Corriere della Sera, “i miliziani del Califfato, presi il pozzo d’oro nero di Mabruk e il villaggio di An Nawfaliyah, hanno marciato 60 km senza praticamente incontrare resistenza. Si sono impadroniti di radio e tv, spinti verso la Tunisia. Già lanciano volantini alle folle perché prevengano il vizio e ultimatum ai Fratelli musulmani di Alba libica, che governano Tripoli, perché si ritirino senza sparare“. Ma è possibile, si chiede, “che bastino trentacinque blindati e un centinaio d’armati, per arrivare a uno degli scali petroliferi più importanti del Nord Africa?“. Apparentemente sì, perché come spiega Aref Ali Nayod, ambasciatore negli Emirati del governo riconosciuto dall’Occidente, quello rifugiato a Tobruk, “molta gente non sa quanto l’Isis sia infiltrato“, dice . “Lo Stato Islamico sta trasformando la Libia nel suo bancomat, nel suo distributore di benzina, nell’aeroporto da cui è in grado d’attaccare qualsiasi bersaglio in Europa“. E soprattutto l’Italia, che come ha sottolineato il nostro ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, si trova a sole 200-300 miglia nautiche dalle coste del Paese nordafricano. Con un semplice missile Scud colpiamo Roma, hanno scritto provocatoriamente su Twitter i jihadisti. Uno smacco all’Italia, ma anche all’Europa.

LA STRATEGIA DA ADOTTARE

Inutile continuare a sminuire la situazione in quella che ormai, per la maggior parte degli osservatori, è una terra di nessuno dove imperversa la violenza. “Giunti a questo punto“, ha cinguettato ieri un’altra firma del giornale di Via Solferino, il corrispondente da Washington Guido Olimpio, “la Nato dovrà sostenere forze anti Isis, commestibili o meno. E tutte con controindicazioni“. Mentre i drappi neri avanzano e la missione dell’Onu non ottiene risultati significativi, crescono di ora in ora i sostenitori di una soluzione militare affidata a Paesi della regione come Egitto o Algeria come pensa Carlo Jean o di un’azione occidentale ad alta intensità, auspicata da Vincenzo Camporini.

L’Italia, ha detto Gentiloni, “è pronta a combattere in un quadro di legalità internazionale” se non si trova una mediazione. Ovvero è disposta a fornire i suoi soldati per una missione dell’Onu.

Il punto da chiarire – scrive sempre sul Corsera Paolo Valentinoè cosa cambi sul piano politico con l’escalation dell’Isis. Se cioè un intervento internazionale debba come si è sempre detto seguire un’intesa politica o comunque un dialogo intensificato tra le fazioni, ovvero se l’emergenza imposta dal Califfato e il pericolo che la situazione degeneri irreparabilmente non consigli invece di accelerarlo, anche per farne uno strumento di spinta all’accordo politico. Nel secondo caso, i rischi di una missione di pace sarebbero infinitamente più alti. Un altro scenario allo studio sarebbe quello di un intervento affidato a forze regionali, composto cioè da soldati di Paesi confinanti, ma sempre sotto l’egida delle Nazioni Unite“.

L’ANALISI DI TOALDO

Più facile a dirsi, però, che a farsi, perché il quadro è in vorticoso mutamento e sono molti gli aspetti da considerare. “Il problema – spiega a Formiche.net Mattia Toaldo, analista presso lo European Council on Foreign Relations di Londra  – è che in generale le organizzazioni armate estremiste ed islamiste sono in ascesa, anche se cominciano ad emergere elementi di crisi forse proprio perché una risposta militare c’è stata. Ma la crisi sarà temporanea se l’Isis potrà continuare a contare su un vasto “bacino d’utenza” di sunniti che si sentono emarginati politicamente e minacciati fisicamente nel Levante mentre la crisi dello stato libico necessita di una risposta non solo militare“.

Al momento, sottolinea l’esperto, non c’è una vera propria forza anti-Isis in Libia che a sua volta non sia divisiva. Certo, “Heftar, non chiede altro da mesi: che noi si entri nella guerra civile al suo fianco. La risposta all’Isis è anche militare e non bisogna negarlo. E’ un’organizzazione che non prevede il negoziato politico e tuttavia la risposta non può che essere anche politica: bisogna fargli il vuoto attorno, ricostruire ovunque possibile accordi di unità nazionale per combattere gli estremisti. Questo – conclude – vuol dire convincere i nostri alleati regionali che noi facciamo sul serio ma anche che solo soluzioni consensuali (che includano anche le forze islamiste moderate) possono essere una risposta efficace all’Isis“.


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