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Mattarella, la sinistra e l’oratorio della sovversione

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La sentenza di Norma Rangeri, direttrice del manifesto, è perentoria: «spesso è meglio per la sinistra un democristiano di sinistra che un comunista migliorista». Vale a dire, senza tanti giri di parole e senza tante storie: Mattarella è meglio di Napolitano. Anche Luciana Castellina è contenta: come Norma Rangeri, confessa il suo compiacimento a Jacopo Jacoboni, che su La Stampa di domenica scorsa (La sinistra “porta a casa la pelle” quasi felice di morire democristiana) descrive con lo scrupolo di un entomologo umori e ragionamenti assai diffusi nell’antica Nuova sinistra. La gauche a sinistra del vecchio Pci si scopre dunque gioiosamente affine a quella  collocata topograficamente dentro la vecchia Dc. Anche se, forse, non di scoperta bisognerebbe parlare, ma di ri-scoperta occorrerebbe discutere; come di una parentela che, di volta in volta rinnegata e rivendicata, percorre carsicamente la storia italiana. C’è infatti, fra queste strane sinistre, un denominatore comune: una simpatia per le rivolte di Vandea, una diffidenza, un’ostilità, un’estraneità rispetto a valori che sono alla base dello Stato moderno. Valori che, al tempo stesso, precedono e presuppongono la democrazia. François Furet ha scritto che la Rivoluzione francese eredita l’assolutismo monarchico trasfigurandolo in assolutismo democratico. Forse per aver smarrito questa eredità, forse per esser arrivati all’unità amministrativa tardi e male, sei secoli dopo l’unità linguistica, forse per la manomissione dei valori nazionali perpetrata dal fascismo, forse per questi e altri motivi e certamente per la debolezza delle classi dirigenti, agli italiani lo Stato non piace. Non piace ai lazzari che scorrazzano sotto lo sguardo magnanimo dei camorristi e non piace al Sindaco di Napoli, non piace ai ladri e non piace alle guardie, non piace agli assenteisti dei ministeri e non piace agli evasori fiscali, non piace alla mafia e non piace all’antimafia.
Non piace, lo Stato. Come non piaceva al movimento cattolico dell’Ottocento, come, in realtà, non piaceva a Luigi Sturzo e come non è mai piaciuto al sindacalismo massimalista. Solo la guerra fredda riuscì a frenare questo connubio; solo i diritti civili sembrano ancora terreno di scontro.
Leonardo Sciascia descrive nel suo L’affaire Moro, la strana e repentina trasformazione delle parole che si usarono per definire Aldo Moro, un uomo che dal momento del tragico epilogo diventa “Lo statista scomparso”. Statista? Si chiede Sciascia… Moro statista…. Moro fu un uomo di parte e di partito, come tutti gli uomini della Democrazia cristiana. A eccezione forse di De Gasperi, non esistono statisti democristiani. Così come, aggiungerei, non esistono statisti in quell’universo di cui fanno parte Norma Rangeri e Luciana Castellina. L’affinità dunque non sta solo in valori condivisi, ma anche e soprattutto nell’assenza del valore positivo dello Stato così come lo abbiamo conosciuto in occidente e in Italia da Cromwell a Cavour.
Spia di questa affinità è la strana nostalgia di Oscar Luigi Scalfaro, il Presidente della Repubblica che, in odio a Berlusconi, arrivò persino a sdoganare il secessionismo della Lega, con una torsione delle regole costituzionali che non sarebbe stata perdonata al presidente Napolitano.

Ora, questo mondo, questi mondi sperano di aver trovato in Mattarella un nuovo Scalfaro. C’è da sperare che si sbaglino. A evitare che questo Paese si trasformi definitivamente in un  oratorio della sovversione.


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