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Perché non mi affascina il decalogo (lepeniano) di Matteo Salvini

Salvini

Vasto programma: a leggere quel che Matteo Salvini ha pubblicato sul Foglio non si può fare a meno di ricordare la famosa battuta del generale de Gaulle. E in effetti è vasto davvero, spazia dall’Europa (meno Europa) alle tasse (rilancia la flat tax), dall’aumento delle spese (per produrre naturalmente, non per sprecare) all’abolizione della legge Fornero (quindi più pensioni), dal protezionismo per le merci e per gli uomini (controllare le frontiere) al “non pagare per gli altri”, siano essi greci o terroni (anche se oggi sulle felpe salviniane non si chiamano più così).

Insomma, un mélange di cose vecchie con poche novità, se non quella attorno alla quale ruota l’intero programma: l’uscita dall’euro. E’ su questo che presumibilmente la Lega farà campagna, ed è su questo che trova l’intesa con Marine Le Pen e le altre forze anti-euro in Europa. Anche in Italia, del resto, il fronte di chi vuole mollare la moneta unica è ampio e trasversale, va dall’estrema sinistra alla destra passando anche per fior di moderati.

GLI EFFETTI DELL’USCITA DALL’EURO

L’argomento chiave di Salvini è il seguente: “La difesa dell’euro si attua sulla pelle degli italiani creando a bella posta disoccupati e fallimenti mentre il riequilibrio potrebbe attuarsi in modo naturale con i cambi flessibili”. E’ una tesi sostenuta da diversi economisti come ad esempio Alberto Bagnai. E’ fondata? Funziona? Poco tempo fa in uno dei cenacoli mensili organizzati da Giorgio La Malfa e Paolo Savona, ho ascoltato lo stesso Bagnai e anche altri economisti keynesiani, ma di area centrista, argomentare, tablet e tabelle alla mano, la stessa tesi. Ad un certo punto, ha preso la parola La Malfa il quale ha cominciato a criticare l’euro fin dalla sua nascita e ha detto che lui, come keynesiano d’antan, allievo di Franco Modigliani, è d’accordo sul ruolo equilibratore delle svalutazioni (alias cambi flessibili) e oggi come oggi l’uscita dall’euro può diventare l’unico sbocco possibile. “Ma gli effetti sarebbero catastrofici e bisogna avere il coraggio di dire agli italiani che debbono essere pronti a sopportare lacrime e sangue almeno per due o tre anni”, cioè finché le esportazioni faranno da traino a tutto il pil.

LE VARIABILI DA CONSIDERARE

Naturalmente c’è un grande “se”, perché l’export, pur importante, non arriva al 30% del prodotto lordo (la Germania è già al 50%). Bisogna sperare che il mercato mondiale cresca sempre (non è scontato se aumenta il protezionismo) e in ogni caso il resto dell’economia non è del tutto integrato alla manifattura che vende all’estero. Pesante sarebbe la distruzione di risparmio per chi detiene titoli in euro; il caos sui mercati finanziari spingerebbe verso la bancarotta non solo le banche, ma anche molte imprese, mentre c’è il rischio di massicce fughe di capitali che depauperano il Paese, a meno di non chiudere le frontiere. Cipro lo ha fatto senza lasciare la moneta e non è uscito dal doppio regime, figuriamoci cosa accadrebbe in Italia. Ci siamo già passati, ma era a pochi anni dall’Unità o dopo la guerra. La svalutazione genera inflazione, positiva per i debitori (quindi anche lo Stato), ma nociva per i creditori. Insomma, tutto sommato i costi immediati superano di gran lunga gli eventuali benefici futuri.

CHE SUCCEDE USCENDO DALL’EURO

L’uscita dall’euro è stata simulata dalle istituzioni economiche italiane ed europee, che hanno tenuto riservati i risultati. L’ufficio studi della banca svizzera Ubs ha fatto i suoi conti nel 2012, quando la crisi della moneta unica era in corso, e ha calcolato gli effetti sui Paesi forti (immaginiamo la Germania) e su quelli deboli (l’Italia per esempio). Ci sarebbe una perdita, nei paesi forti, pari al 20-25% del pil nel primo anno, tra i 6 e gli 8 mila euro per ogni persona adulta e tra i 3.500 e i 4 mila euro negli anni seguenti. Nei Paesi deboli la caduta del pil oscilla tra il 40 e il 50% nel primo anno (tra 9.500 e 11.500 euro a testa, seguiti da perdite che oscillano tra i 3.500 e i 4.500 euro pro capite negli anni successivi). Nessuno può sapere se e quando verranno recuperati, anche ricorrendo a svalutazioni continue.

INCOGNITA CAMBIO

Diatribe dottrinarie a parte, in quel “ma” lamalfiano c’è tutta la differenza tra l’onestà intellettuale e la propaganda pura e semplice. Nel decalogo di Salvini (sono dieci i punti illustrati sul Foglio) manca l’undicesimo punto, cioè come gestire la transizione tra il cambio fisso e quello flessibile, come ridurre l’impatto sui cittadini, come sostenere e assistere le nuove povertà, aumentando il deficit e nel breve periodo il debito, quindi finanziandosi su un mercato che non sarebbe disposto a prestare soldi se non a interessi da strozzini.

TORNA LO STATO LEVIATANO?

Tecnicalità da ragionieri, esattamente come le proposte fiscali? La flat tax è il cavallo di battaglia degli iperliberisti i quali, però, per coerenza intellettuale, l’accoppiano alla teoria dello Stato minimo. In altre parole, se scendono le entrate debbono scendere anche le uscite, lo Stato deve lasciare al mercato tutto quello che va oltre una fascia base di protezione (quindi la sanità va privatizzata e le pensioni debbono seguire il modello non contributivo, ma assicurativo). Il programma di Salvini, invece, prevede un aumento della spesa pubblica. E’ per la produzione, naturalmente; ciò vuol dire che il Leviatano deve espandere i suoi tentacoli all’industria. Si tratta di quella strategica, of course, ma abbiamo già sperimentato dagli anni ’70 che tutto o quasi, tra Iri, Eni, Efim e Gepi, era diventato strategico. Si può sempre cambiare, tuttavia la storia è una ipoteca pesante. Così, nel voler lisciare il pelo a Syriza e al Front National, finisce che la Salvinomics non solo non sta in piedi, ma perde quel terragno e solido senso comune che tanto piace nelle cascine padane e non mancava certo a Umberto Bossi.

(ECCO IL MENU DI SALVINI IN 20 PIETANZE)


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