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Perché sulla Grecia la Germania scherza col fuoco. Parla Giulio Sapelli

La scelta della Banca centrale europea di non accettare più i titoli di Stato greci come garanzia dei prestiti concessi alle banche elleniche non è un puro atto di finanza pubblica. Ma illumina e richiama il vuoto spaventoso di forza e iniziativa politica dell’Ue. Giunta a un bivio cruciale.

È il cuore dell’editoriale intitolato “Ponzio Pilato non abiti a Bruxelles”, scritto sul Messaggero dallo storico dell’economia Giulio Sapelli. Con lui Formiche.net ha approfondito i riflessi e le implicazioni del complesso braccio di ferro in atto fra Atene, Berlino, Bruxelles e Francoforte.

Prof, il governatore della Bce Mario Draghi ha accelerato il fallimento delle trattative per rinegoziare il debito pubblico di Atene?

Mario Draghi è in grave difficoltà. È soggetto alle pressioni della minoranza guidata dal numero uno della Bundesbank Jens Weidmann molto attiva nel board dell’Eurotower. Un gruppo che evidenzia i pericoli insiti nell’aumento della liquidità monetaria nel Vecchio Continente e vorrebbe tornare indietro alla missione statutaria della Bce: garantire esclusivamente la stabilità finanziaria. Peraltro emerge un fattore paradossale.

Quale?

L’enorme massa di risorse messe in moto dalla Banca centrale europea è destinata agli istituti creditizi, di cui gonfia gli attivi e i guadagni. Ma raramente si traduce in investimenti reali a favore di famiglie e imprese. Draghi vorrebbe far funzionare l’istituzione finanziaria verso l’obiettivo della crescita, sul modello nordamericano. Ma è costretto a muoversi entro rigidi limiti legali. Così il suo intervento resta a metà, come rivela la “mossa da Ponzio Pilato” effettuata nei confronti della Grecia.

Perché parla di gesto pilatesco?

Draghi ha spiegato che l’iniziativa della Bce nel terreno delle crisi finanziarie dei paesi membri dell’Euro-zona non può superare determinati confini. E ha rivolto un appello alla politica affinché metta in azione strumenti come il Fondo salva-Stati e il Meccanismo europeo di stabilità. Che dipendono dal Consiglio europeo, e non da Francoforte.

Cioè ha rinviato la soluzione del problema ellenico alle scelte delle istituzioni politiche europee?

Affermando che gli istituti creditizi greci possono farsi finanziarie dalle banche nazionali centrali, il governatore della Bce ha caldeggiato una condivisione del debito pubblico di Atene. Il cui ammontare è ben poca cosa rispetto a tutte le risorse immesse nelle acquisizioni di titoli di Stato. Egli ha messo in luce la discrasia tra ciclo economico e ciclo politico.

La proposta di Alexis Tsipras – rinegoziare la gestione del debito ellenico emettendo titoli pubblici a rimborso fisso per un tempo indeterminato – non è troppo rigida nei confronti dei creditori?

Non vi è dubbio. Ma vanta precedenti illustri nella storia occidentale, come i prestiti contratti dall’Italia per creare infrastrutture e autostrade negli anni della Ricostruzione. Il responsabile delle Finanze greco, formatosi alla London School of Economics in un orizzonte neo-keynesiano, vuole prendere tempo. E promuovere intanto misure efficaci contro l’evasione fiscale e la corruzione. Perché l’Ue non capisce tutto ciò concedendo ad Atene tutto il tempo necessario? E perché le istituzioni europee restano in silenzio?

Forse per il fatto che in molti prendono in esame lo scenario di una fuoriuscita della Grecia dall’euro.

Un’ipotesi del genere è considerata scontata dai “falchi” della Bundesbank. E dai loro omologhi di casa nostra. Mi riferisco a Francesco Giavazzi, che sul Corriere della Sera ha apertamente elogiato lo stop della Bce ai prestiti verso le banche elleniche.

È una prospettiva realistica?

Si tratta di fantapolitica. Un’area importante dell’Europa, confinante con la Turchia e i Balcani, abbandonerebbe l’Unione monetaria. Sarebbe un terremoto di portata mondiale, con seri riflessi geo-politici.

Per quale ragione?

Il fianco meridionale dell’Unione Europea è già minato dal rifiuto della Turchia di concedere le basi aeree per bombardare le postazioni dello Stato islamico in Iraq e Siria. E vi è il rischio che una nazione storicamente ancorata al mondo occidentale come la Grecia entri nell’orbita russa. Ricordiamo la lunga telefonata realizzata da Alexis Tsipras con Vladimir Putin nelle ore dello scontro drammatico con il governo tedesco sulla rinegoziazione del debito pubblico ellenico. Colloquio nel quale è stata prefigurata una collaborazione intensa tra Atene e Mosca in settori economici strategici. Con un collante ulteriore.

Quale?

Al di là degli storici legami commerciali, nei due paesi ha sempre giocato un ruolo nevralgico la Chiesa ortodossa. Tuttora forte in Grecia, addirittura elevata a fondamento di legittimazione politica nella Russia di Putin.

Cosa bisogna attendere allora dalla riunione dell’Euro-gruppo prevista il 16 febbraio a Bruxelles?

Spero possa essere stabilito un rifinanziamento del Fondo salva-Stati, o in alternativa l’emissione di Eurobond per salvare e dare tempo alla Grecia. Quattro-cinque anni per far calare il debito pubblico, stimolare la crescita, aumentare i salari, assumere un po’ di lavoratori, razionalizzare le pensioni, liberalizzare senza vendere ai cinesi i porti ellenici come Il Pireo. Un’azione coraggiosa quest’ultima, soprattutto al cospetto dell’acquisizione del 35 per cento delle reti energetiche di Cassa depositi e prestiti ad opera del colosso pubblico China State Grid.

È pensabile nei confronti della Grecia una riedizione della Conferenza di Londra del 1953 che riservò alla Germania un trattamento di favore riguardo i debiti di guerra?

Ritengo che sia necessario promuoverla a partire dal tema del debito ellenico. Ma per allargarla a quello europeo in un’ottica globale. Per tale ragione essa dovrebbe essere un’iniziativa internazionale aperta alla partecipazione di russi e americani. È così che potremo evitare il rischio di consacrare un’egemonia tedesca sul Vecchio Continente. Gli Usa dovrebbero avere il coraggio di attivarla, con un voto convergente di democratici e repubblicani.

È un obiettivo di ampio respiro.

La conferenza costituirebbe il giusto terreno di partenza per creare un esercito europeo in grado di portare avanti, con gli alleati occidentali e arabi, l’offensiva militare contro lo Stato islamico. È la sede appropriata per discuterne, visto che per una simile forza di intervento sono necessarie considerevoli risorse finanziarie.

Ma la Germania accetterà uno scenario del genere?

Berlino ha una vocazione “deterministica” a dominare. E pertanto deve essere bilanciata. Per tale motivo ritengo auspicabile un’Europa confederale costruita sul modello svizzero, o un assetto federale di tipo nordamericano in cui la California può fallire senza effetti catastrofici sull’unione. Lo possiamo fare ritornando allo spirito originario dei Trattati di Maastricht che prevedevano ampi margini per una politica economica nazionale sovrana, rinnovando lo statuto della Bce per orientarla verso sviluppo, costruendo un’Europa delle nazioni su base democratica. Perché il “ciclo tecnocratico” è tramontato.


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