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Come il petrolio fa zampillare gli Stati (non solo la Libia)

Quattro Paesi, quattro storie diverse, un punto in comune: un futuro prossimo legato a doppio filo alla più preziosa delle risorse energetiche, il petrolio.

LIBIA

Complesso lo scenario in Libia, un Paese provato, spaccato a metà, e non solo idealmente. Una frattura che non si manifesta soltanto attraverso uno scontro tra “blocchi” contrapposti, ma anche in una vera e propria moltiplicazione di enti, cariche politiche, istituzioni, che si contendono non solo il governo, ma anche le risorse del Paese. Da una parte ci sono le città controllate dai miliziani filo-islamisti, al comando a Tripoli e Bengasi, politicamente guidati dalla Fratellanza musulmana; dall’altra il governo e il Parlamento – sciolto da una sentenza della Corte suprema – riconosciuti internazionalmente e rifugiatisi a Tobruk. Per l’ex regno di Muammar Gheddafi il petrolio è tutto: il 98% dell’export in valore e il 96% delle entrate governative. Dalla caduta del regime la produzione è crollata, anche a causa di disordini come quelli della scorsa notte, quando un gruppo armato ha attaccato un campo petrolifero a sud di Sirte per lo sfruttamento congiunto delle risorse da parte del gruppo Total e della Compagnia nazionale libica. Il sito, situato ad Al Mabrouk è al momento inattivo, come molte altre installazioni petrolifere nel Paese, a causa del funzionamento rallentato dei terminal per l’esportazione. La speranza di un futuro per il Paese è tutta riposta al processo di dialogo sponsorizzato dall’Onu, che si svolge in queste ore a Ginevra e che manifesta piccoli, ma concreti segnali positivi.

ARGENTINA

Il caso più intricato è senza dubbio, invece, quello argentino, dove di ora in ora emergono dettagli sulla morte di Alberto Nisman, che rischiano di minare la tenuta stessa del governo. Ieri il quotidiano nazionale El Clarin, ha scritto in anteprima che poco prima di essere assassinato in circostanze sospette, il procuratore voleva chiedere l’arresto della presidente Cristina Fernandez Kirchner. Le rivelazioni si basano su una minuta scritta nel giugno 2014 dal giudice – deceduto il 18 gennaio scorso – ritrovata nel suo appartamento e di cui il giornale si è procurato copia. La denuncia di Nisman contro la Kirchner, comprendeva la richiesta di arresti non solo per il capo di Stato, ma anche per il ministro degli Esteri Hector Tiemerman e per alcuni leader della Campora, gruppo politico giovanile sostenitore della presidente. Nisman è stato ritrovato morto nella sua casa alla vigilia di un’audizione a porte chiuse davanti al Parlamento nella quale avrebbe puntato il dito contro la presidente argentina, coinvolta, a suo parere, nell’affaire, per aver dato protezione ai mandanti iraniani dell’attentato, in cambio di vantaggi commerciali come accesso all’oro nero iraniano.

IRAN

Proprio da Teheran giunge la notizia che la Repubblica islamica starebbe studiando condizioni di favore per attrarre investitori stranieri. Le sanzioni hanno nel tempo abbattuto la produzione petrolifera e il calo del prezzo del greggio ha penalizzato ulteriormente l’economia del Paese. Teheran, spiega l’agenzia Reuters, è ancora impegnata nel lungo negoziato sul nucleare intrapreso con le potenze del gruppo 5+1, che lascia presagire esiti positivi, anche se non è proprio dietro l’angolo. Ma, nel frattempo, il Paese guidato dal presidente Hassan Rouhani medita come riportare le grandi compagnie a scommettere sull’Iran. Secondo le indiscrezioni trapelate, Teheran è disposta ad offrire ai giganti del petrolio condizioni molto migliori di quelle del passato, con contratti di maggiore durata (fino a 25 anni), diritti effettivi sui campi e sulla commercializzazione del prodotto. In cambio, il regime otterrebbe quelle ripresa economica promessa da tempo agli iraniani e ancora lontana dal giungere.

ARABIA SAUDITA

Movimenti energetico-geopolitici, infine, anche nel petrostato per eccellenza, l’Arabia Saudita, che ha da poco dato l’estremo addio al 91enne re Abdullah. Il suo successore e fratellastro, il principe ereditario Salman Abdul Aziz al Saud, in continuità con la linea adottata dal vecchio monarca, ha deciso di non tagliare la produzione di greggio, tenendo così basso il prezzo del petrolio. Una strategia che, rivela il New York Times, la monarchia sunnita wahabita di Riyadh sta usando per fare pressione sulla Russia di Putin perché abbandoni il presidente siriano Bashar al-Assad, a sua volta vicino al nemico sciita dell’Arabia Saudita, l’Iran.

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