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Popolari, bad bank e fusioni. Di cosa bisbigliano Renzi e i banchieri

Ma davvero tutti i banchieri si stanno stracciando le vesti per la riforma Renzi delle banche popolari?

Certo, Assopopolari – l’associazione degli istituti del settore – non ha lesinato critiche al decreto Renzi, che prevede la trasformazione delle maggiori dieci banche popolari in società per azioni, rottamando tra l’altro il principio del voto capitario (una testa un voto nelle assemblee) che caratterizza gli istituti cooperativi.

Eppure ha fatto sensazione il plauso al provvedimento giunto da Giovanni Bazoli, presidente di Intesa, banchiere cattolico che avrebbe dovuto – secondo alcuni schemi giornalistici – stimmatizzare il provvedimento governativo che colpisce uno dei simboli del solidarismo cattolico (snaturato e svilito, secondo quanto detto dal premier Matteo Renzi in una puntata di Porta a Porta, nelle banche popolari e di credito cooperativo).

Perché Bazoli ha proferito quelle parole nonostante sia un esponente del cattolicesimo bancario e uno dei numi tutelari della nascita di Ubi, una delle Popolari toccate dalla riforma renziana? (E proprio Ubi sta costando a Bazoli un altro coinvolgimento giudiziario, qui tutti i dettagli)

Una spiegazione l’ha fornita l’editoriale di sabato scorso scorso del settimanale Milano Finanza, firmato da Paolo Panerai, che nelle ultime righe ha scritto: “La formula di cooperativa-banca popolare può tornare buona anche come cavallo di Troia per costruire grandi banche”.

Ma a farsi strada tra gli addetti ai lavori c’è anche un’altra interpretazione. Dietro le critiche anche virulente, seppure formalmente garbate, si cela un apprezzamento verso il progetto ribattezzato “bad bank” sul quale sta lavorando Palazzo Chigi, il Tesoro e la Banca d’Italia.

Un apprezzamento, sul piano in fieri per gestire la massa di sofferenze bancarie che gravano sui bilanci degli istituti, che solca le piccole e medie banche (visto che ad esempio Unicredit e Intesa hanno già proprie strutture per gestire i crediti non performing), tra cui le Popolari e Mps.

Proprio per questo motivo le Popolari potrebbero “accettare una qualche riforma nella governance in cambio di una bad bank sostenuta dal governo”, sostiene un report di Equita Sim.

Gli analisti della Sim ritengono che ci sarà quest’anno un’intensa attività di fusioni e acquisizioni tra Popolari “come mossa difensiva per evitare nel futuro scalate ostili”. Dal consolidamento potrebbero nascere due grandi banche popolari, dette “Supernove”, le cui sinergie faranno accrescere fino al 9% nel 2017 la redditività.

Ma quali sarebbero i matrimoni possibili?, si è chiesto oggi il Corriere della Sera. A tirare le fila, secondo Equita, saranno da un lato Ubi, dall’altro Bpm o il Banco Popolare. “La nostra combinazione preferita sarebbe un remake della fusione Bpm e Bper, ma non possiamo escludere che anche il Banco possa farne parte. In tal caso, Ubi potrebbe fondersi con il Creval o con la Pop. Sondrio”. In realtà, spiega il report, le Popolari – concentrate tutte al Nord – sono complementari l’una con l’altra. Una fusione avrebbe anche l’effetto di consolidare in modo definitivo il mercato, concentrato per metà in 3-4 istituti.

E il fatto che alcuni banchieri siano pronti a discutere con il governo della riforma e di molto altro – comprese fusioni e ipotesi di band bank sistemiche per i crediti in sofferenza, con un ruolo dello Stato tanto certo quanto ancora non definito – è attestato anche dalla disponibilità di molti vertici di Popolari ad essere aggregatori, come Ubi, Banco Popolare e Bpm.

Il Giornale avanza l’ipotesi di una fusione a tre: “Insomma, una superpopolare del Nord che coinvolga i pesi medi del settore, a partire da Creval e Veneto Banca. Bpm potrebbe però soccorrere Carige, mentre la strada maestra di Ubi appare Siena, così da assorbire la filiali della ex Antonveneta. Gli incastri definitivi dipenderanno anche da quanto la lobby delle coop riuscirà a convincere il Parlamento ad attutire il colpo di mano di Renzi, correggendo la legge della spa introducendo un tetto ai diritti di voto o il cosiddetto «voto scaglionato» (la forza in assemblea è progressivamente ridotta al crescere della quota). L’unico modo per contenere il rischio di finire nella pancia di qualche big estero”, ha scritto Massimo Restelli.

Come si vede, dietro le ufficiali lamentele si celano ufficiose disponibilità a trattare…

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