Criticata o applaudita, la strategia estera della Casa Bianca rimane il fulcro delle politiche di sicurezza occidentali. Washington è presente in prima linea o per interposta persona nei principali teatri di crisi e – dall’Ucraina alla Libia – mette a punto le prossime mosse.
IL FRONTE SYRAQ
Uno dei fronti più caldi è il cosiddetto Syraq, il territorio tra Siria e Iraq reso un unico fronte instabile dall’avanzata dello Stato Islamico, che ha deciso di gettare lì le basi del suo progetto di dominio del mondo e di guerra di religione. In questa vasta porzione di terra mediorientale sono attese novità importanti. Come svela il Guardian citando un ufficiale del Pentagono, a Mosul, in territorio di Baghdad, tra aprile e maggio alcune brigate iraqene lanceranno un attacco via terra con 25mila soldati per strappare la città ai drappi neri. Gli Stati Uniti – ha spiegato la fonte – forniranno sostegno militare per l’operazione, compresa la formazione, supporto aereo, di intelligence e di sorveglianza. Ancora nessuna decisione, invece, sull’invio di alcune truppe di terra americane per identificare al meglio gli obiettivi degli attacchi aerei ad opera della coalizione internazionale.
L’ACCORDO CON ANKARA
Sempre in tema di contrasto agli uomini di al-Baghdadi, questa volta in territorio di Aleppo, la tv panaraba del Qatar, Al-Jazeera, spiega che Stati Uniti e Turchia hanno firmato un accordo per addestrare e armare circa 5mila ribelli siriani “moderati” nei prossimi tre anni. E la conferma che la politica anti-jihadista di Ankara muti in base al teatro e al contesto. Membro della Nato, il Paese del presidente Recep Tayyip Erdoğan è stato accusato più volte di non ostacolare troppo le attività del Califfato ai suoi confini per non rafforzare i curdi, ma sarebbe ben contenta di rafforzare in Siria l’opposizione che vuole deporre Bashar al-Assad, un tempo alleato turco.
IL CAOS LIBICO
Un’ambiguità presente anche in Libia, dove Ankara, in collaborazione con Doha, sostiene la fazione islamista di Tripoli, in contrasto con Egitto ed Emirati Arabi Uniti, che hanno preso le parti del governo legittimo rifugiatosi a Tobruk, riconosciuto dall’Occidente e quindi anche da Washington. La Casa Bianca però guarda da “lontano”, non facendosi coinvolgere troppo nonostante la crescita dello Stato Islamico anche nel Paese nordafricano. L’ambasciatrice americana in Libia, Deborah K. Jones, ha scritto sul Libya Herald che la matassa libica dovrà essere sbrogliata dai libici stessi o al massimo da un accordo tra attori regionali. Una linea ben diversa da quella adottata in Siria e in Iraq. Come mai? “Dopo tanti anni e diverse guerre – ha rimarcato lo storico e analista di geopolitica e intelligence Edward Luttwak -, gli Usa si sentono responsabili del destino di Baghdad. Non è la stessa cosa per la Libia, dove sono stati trascinati da un intervento scellerato di Francia e Regno Unito“. Una posizione che, per molti osservatori, spiega in modo ancora più chiaro come mai l’Onu abbia “deciso di non decidere” su un intervento militare, tenendo ancora aperte le porte della diplomazia.
LA CRISI UCRAINA
Tanto nel caos libico, quanto in Ucraina (senza dimenticare la Siria di Assad), uno degli attori fondamentali per riportare la situazione alla normalità è la Russia di Putin. La crisi di Kiev, però, pare al momento irrisolvibile. Il Cremlino, spiega Washington, continua a violare gli accordi di Minsk, premendo da un lato per un cessate il fuoco duraturo, ma dall’altro continuando ad armare i ribelli filorussi, che avrebbero ormai anche il controllo del 90% del nodo strategico di Debaltseve, nell’Est del Paese. Per questo gli Usa, dopo il rafforzamento delle forze Nato nei Paesi Baltici, pensano a nuove sanzioni, oltre all’ipotesi – ventilata nelle scorse settimane – di armare Kiev a fini difensivi.