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Perché l’Afghanistan ha ancora bisogno dell’Italia

Sono più di 13 anni che l’Italia è impegnata nell’Asia centrale, in quella che eufemisticamente viene definita una operazione di pace, ma che in realtà è una guerra vera e propria che contrappone alla “resistenza” dei talebani il legittimo governo nazionale e i suoi alleati. Una guerra iniziata all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle, quando sembrava naturale mobilitarsi contro una minaccia percepita come incombente da tutti i Paesi occidentali, colpiti nell’intimo e nell’amor proprio da quell’attacco al sancta sanctorum delle democrazie moderne come era considerata New York. Un vulnus che si sentiva di dover sanare, e forse vendicare, a tutti i costi.
Intervenimmo immediatamente in Afghanistan e in Iraq, quindi, a quell’urlo di “siamo tutti newyorkesi”, molto meno pretenziosamente sostituito dal “Je suis Charlie” dei nostri giorni, che spazzava ogni possibile obiezione e che bloccava sul nascere ogni velleità di sottrazione a una solidarietà internazionale che non poteva che essere assolutamente obbligatoria.

Ci sarebbe molto da discutere su cosa abbia comportato quella mobilitazione unanimistica delle opinioni pubbliche sotto il profilo etico e culturale e quale nuova fase della storia internazionale si sia allora imboccata. Ci sarebbe anche da discutere delle conseguenze degli avvenimenti di quei giorni, che ci consegnano un mondo molto più instabile del precedente, almeno nel suo spicchio mediterraneo ed europeo già intaccato dalla polverizzazione jugoslava, come se la medicina “democratica” che gli Usa hanno voluto far trangugiare per forza a molti regimi illiberali non abbia avuto gli effetti voluti. Anzi.
Mi limiterò, invece, a trattare brevemente di quelle che sono le principali conseguenze sotto il profilo militare dell’impegno nazionale in Afghanistan, e delle sfide che ancora ci restano da affrontare in quel teatro operativo.

Il nostro Paese, fin da subito, ha avuto un ruolo-chiave in tale operazione, con un piccolo contingente nella capitale Kabul, subito dopo la sua liberazione. Seguì l’operazione “Nibbio” sul confine pakistano a Khowst nel 2003, dove per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale alle nostre unità era assegnata una missione spiccatamente operativa in senso classico e non semplicemente limitata alla “tradizionale” attività di interposizione delle precedenti operazioni internazionali del dopoguerra. In sostanza, in quel frangente i nostri soldati avevano ricevuto il compito di combattere l’opposizione armata, al fine di assicurare, dopo gli interventi aerei statunitensi contro le milizie talebane che la facevano da padrone nel Paese, il controllo del territorio al nuovo governo afghano. E l’Italia doveva assolvere questo compito proprio nell’area scelta da un certo Osama Bin Laden, per stabilirvi una delle sue roccaforti.

Con il tempo la situazione mutò e anche il resto di quel Paese, grande più del doppio del nostro, passò sotto il controllo della Coalizione internazionale. Fu allora che si decise di assegnare all’Italia un quarto dello stesso, nella Regione ovest al confine con Iran e Turkmenistan che aveva in Herat la sua capitale regionale. Herat era una città relativamente prospera, che anche negli anni del potere talebano era stata preservata dalle peggiori conseguenze di quel regime grazie alla vicinanza di un Paese ricco come l’Iran – nemico giurato dei talebani – e alla presenza di un personaggio carismatico e potente come Ismail Khan, eroe della precedente guerra contro i sovietici.
Ma non era semplicemente in quella città che gli Italiani dovevano operare. Altre aree, molto più delicate e pericolose, come Farah, Bakwa, Gulistan, Bala Boluk e Bala Murghab, divennero familiari per i nostri uomini, lentamente ma inesorabilmente inseriti in uno scenario complesso ma anche affascinante, che hanno anche imparato ad amare.

Com’è andata lo sappiamo, almeno con riferimento alle dolorosissime perdite che abbiamo subito (più di 50 morti e caduti e oltre 400 feriti, molti dei quali amputati e grandi invalidi). Un po’ meno note, anche in ossequio a un tradizionale e ideologico disinteresse nazionale per le tematiche militari, quelle che sono state invece le conseguenze sulle nostre capacità operative: eppure, sono state notevoli. Prima di tutto, sotto il profilo culturale si è imposta, anche presso gli altri contingenti, un’idea del militare italiano diversa da quella che tanti detrattori in servizio permanente delle nostre virtù nazionali hanno voluto pervicacemente propalare per decenni. Si è imposta, cioè, l’immagine di un soldato coraggioso, determinato, che sa rischiare e combattere come e meglio di altri: un soldato che si sa far amare dalle popolazioni ma anche temere dal “nemico” di turno, sia esso il talebano afghano o il morian somalo di vent’anni fa.

Le nostre Forze speciali si sono ricavate un ruolo di grande esposizione tra quelle dei principali Paesi occidentali, diventando protagoniste di una lotta difficile a un nemico insidioso e onnipresente, fianco a fianco con le forze dell’esercito e della polizia afghana. Le nostre unità di fanteria, dal canto loro, hanno assicurato il grosso dello sforzo operativo, operando a lungo in contesti molto rischiosi, spesso sprofondate in vere e proprie trincee come nel caso di Bala Murghab, sostenendo giornalmente situazioni di combattimento vero e proprio. I nostri soldati sono diventati capaci di sfruttare il fuoco aereo anche quando erogato da vettori di altri Paesi, interloquendo con questi, via radio, in inglese. Trasporto operativo e logistico, erogazione di fuoco aereo ravvicinato, sono state invece le attività svolte dai nostri velivoli ad ala rotante dell’Esercito, sempre presenti nei momenti più difficili e dimostratisi spesso risolutivi per la sicurezza delle nostre unità impegnate in combattimento a terra.

La componente aeronautica ha a sua volta dimostrato la sua efficacia grazie all’impiego di vettori fondamentali soprattutto nel settore del trasporto tattico, anche mediante l’aviolancio di rifornimenti alle unità sul terreno, e al controllo dell’area operativa grazie ai velivoli Amx e agli aerei a pilotaggio remoto Predator.
Non c’è dubbio, quindi, che l’esperienza afghana restituisce all’Italia Forze armate in linea con i tempi e tutt’altro che affette da quel provincialismo che caratterizza, sotto molti aspetti, il resto della nostra società.
Ma a parte gli aspetti operativi, anche da un punto di vista logistico si sono fatti grandi passi in avanti nell’elaborare capacità di proiezione un tempo inimmaginabili. Abbiamo infatti impiegato fino ad oltre 4mila uomini in un teatro terrestre che poteva essere raggiunto solo per via aerea, sfruttando al meglio una efficiente base della nostra Aeronautica militare negli Emirati Arabi e movimentando incessantemente da e per il teatro decine e decine di migliaia di soldati ed enormi quantità di mezzi e materiali.

In Afghanistan, tale personale e tali mezzi sono stati impiegati nei posti più difficili, spesso raggiungibili solo grazie ai nostri elicotteri, o mediante lunghi trasferimenti terrestri, percorrendo strade approssimative e rese pericolose dalla minaccia delle Ied (Improvised explosive devices) che hanno causato molte perdite ai contingenti internazionali, nonché al nostro, e che sono state efficacemente combattute dal nostro Genio militare. I nostri genieri hanno letteralmente aperto la strada alle nostre unità e a quelle alleate, disinnescando migliaia di ordigni e diventando padroni di una materia complessa e letale, a prezzo di un doloroso tributo di sangue.
Ora, dopo 13 anni circa, la missione Isaf è cessata, anche sotto la spinta di altre emergenze internazionali a noi più prossime e che non ci potranno vedere quali semplici spettatori di iniziative altrui. Parlo di Libia e Medio Oriente, a conti fatti non così distanti, non solo culturalmente, dal “lontano” Afghanistan.

Per quanto attiene a quest’ultimo, dall’operazione Isaf si è infatti passati a Resolute support, cioè da una missione di combattimento vera e propria a un’operazione di semplice supporto addestrativo alle unità locali, con conseguenti livelli di forze più ridotti. Si è quindi iniziato un intenso flusso di unità in ripiegamento che, per quanto attiene al nostro Paese, prende il nome di operazione “Itaca 2”. Si tratta di una complessa operazione logistica incentrata su un continuo ponte aereo tra Herat e Al Bateen, negli Emirati, e da qui all’Italia via nave per il trasferimento di una ingente quantità di mezzi e materiali di ogni genere.
Quest’attività, in corso da ormai due anni, ha portato a ripiegare fino ad ora circa 14mila metri lineari di carico, cercando un difficile bilanciamento tra le esigenze logistiche del ripiegamento a quelle operative del nostro contingente residuo, che continua ad essere esposto a una minaccia sempre sensibile e difficile da contrastare da parte di forze nazionali sempre più esigue, anche se ora concentrate unicamente nella base di Herat.

Come dicevo, si tratta ora di fare i conti con nuove minacce, alcune delle quali a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste. Forse, la Comunità internazionale se ne vorrà far carico, o forse si concentrerà su interessi non completamente corrispondenti ai nostri. In ogni caso è certo che non ci sarà possibile, come Paese, limitarci ad una posizione attendista, come se fosse di altri la responsabilità di trovare una soluzione ai nostri problemi, che saranno capaci di proiettarsi sulla vita delle prossime generazioni.
Continueremo, infatti, a galleggiare in questo Mediterraneo in ebollizione e a fronteggiare minacce sempre più vicine al nostro territorio, anche qualora l’interesse degli altri Paesi occidentali si concentrasse su altre situazioni a noi più distanti. Per questo, non potremo esimerci dal porre attenzione anche a quello che avviene al di fuori dei nostri confini, senza spocchiosi atteggiamenti di sufficienza o di superiorità, come se bastasse la nostra modernità e la nostra apertura (?) culturale per metterci al riparo da quei problemi.

Scopriremo, così facendo, che in quelle aree spesso non si fa mistero di un “bisogno d’Italia” che lascia sconcertati i più superficiali, come se fossimo capaci di una fascinazione della quale siamo inconsapevoli; e che anzi infastidisce molti all’interno della nostra società. Ma è una fascinazione reale, di cui è prova la nostra presenza alla testa di contingenti importanti per la stabilità mondiale, come quello dell’Onu in Libano, quello della Nato in Kosovo e quello dell’Unione europea in Somalia, dove l’umanità, ma anche e soprattutto le capacità operative delle nostre unità militari sono unanimemente rispettate, apprezzate e richieste.
È bene esserne consapevoli, ed è altrettanto bene evitare che quello che ci lascia l’Afghanistan in termini di efficienza e di capacità operativa venga fatto deperire per meri calcoli di cassa.

Marco Bertolini è generale di corpo d’armata e comandante del Comando operativo di vertice interforze

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di Airpress di febbraio 2015

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