Il decreto contro il jihadismo varato con fatica dal governo dopo settimane di discussioni inizia a produrre effetti. Il primo lo si è registrato in Balkan Connection, la mega operazione della polizia anti terrorismo che dopo mesi di indagini ha sgominato una cellula di estremisti islamici, riconducibile all’Isis, che operava tra l’Italia e l’Albania. Gli arresti sono stati effettuati applicando per la prima volta una misura preventiva del nuovo pacchetto di norme, che rende possibile trattare un sospettato di terrorismo alla stregua di un sospettato di mafia.
IL MODUS OPERANDI
Questa la dinamica. Due cittadini albanesi, nipote e zio, uno residente in provincia di Torino e l’altro in Albania, sono stati arrestati, insieme a un ventenne italiano di origine marocchina residente in provincia di Torino, dopo un’indagine coordinata dalla questura di Brescia. Il nipote faceva il procacciatore via web di potenziali mujaheddin, lo zio completava l’inserimento in gruppi combattenti grazie ai suoi “contatti diretti” con scenari di guerra come la Siria. Sono accusati di avere reclutato e avere tentato di reclutare giovani, in alcuni casi anche minorenni, per convincerli a arruolarsi tra i drappi neri di Abu Bakr al-Baghdadi.
LA CELLULA
I tre avevano creato una vera e propria cellula legata allo Stato Islamico, ma con base in Italia. Non solo: italiani, per la prima volta, sono alcuni dei protagonisti di questa storia. Dopo il caso francese e di altri Paesi europei, che qualcosa si stesse muovendo nei nostri confini lo dimostra anche il documento di propaganda, in italiano, circolato sul web nelle scorse settimane, attribuito proprio all’italo-marocchino. Il loro obiettivo era quello di replicare il caso di Anas El Abboubi, un elettricista partito due anni fa da Vobarno, in provincia di Brescia, per arruolarsi al fianco dei ribelli in Siria. I contatti partivano da Internet, ma in Italia ci sono stati anche “viaggi mirati finalizzati a reclutare persone in Italia”, come hanno evidenziato dirigenti della Questura. Tutti viaggi comunque monitorati dalle forze dell’ordine.
LE ACCUSE
L’accusa per i due albanesi è di “reclutamento con finalità di terrorismo”. Per il 20enne italo-marocchino il reato ipotizzato è invece di “apologia di delitti di terrorismo, aggravata dall’uso di Internet”. L’operazione è stata condotta dalla Digos di Brescia con il concorso delle Questure di Como, Torino e Massa Carrara. I due reclutatori conoscevano Anas e avevano convinto a combattere per l’Isis anche un italo-tunisino residente in provincia di Como, all’epoca ancora minorenne. Le indagini sono partite dai contatti tra El Abboubi e i due albanesi. Prima di arrivare in Siria Anas, già arrestato dalla Digos a giugno del 2013 e scarcerato, si era addestrato proprio in Albania.
LE PERPLESSITA’ DEL GARANTE
Il decreto anti terrorismo, nonostante questi primi risultati, è ancora soggetto a emendamenti e incontra qualche ostacolo. L’ultimo in ordine di tempo ha la voce del Garante della Privacy, che ha espresso “seria preoccupazione per alcuni emendamenti al decreto-legge antiterrorismo approvati in Commissione, che alterano il necessario equilibrio tra privacy e sicurezza. In particolare – rimarca il garante Antonello Soro (Pd) – l’emendamento che porta a 2 anni il termine di conservazione dei dati di traffico telematico e delle chiamate senza risposta (ora di un anno e, rispettivamente, di un mese) va nel senso esattamente opposto a quello indicato dalla Corte di giustizia l’8 aprile scorso”. La sentenza, spiega, ha “annullato la direttiva sulla data retention in ragione della natura indiscriminata della misura (applicabile a ciascun cittadino, senza distinzione tra i vari reati e le varie tipologie di comunicazioni “tracciate”). In quella sede, la Corte ha ribadito la centralità del principio di stretta proporzionalità tra privacy e sicurezza; proporzionalità che esige un’adeguata differenziazione in base al tipo di reato, alle esigenze investigative, al tipo di dato e di mezzo di comunicazione utilizzato. Queste, dunque – spiega Soro – come abbiamo già sottolineato in sede di audizione, in Commissione, sul decreto- le indicazioni ineludibili per riformare la disciplina interna attuativa di quella direttiva; non quelle, di segno opposto, proposte all’Aula dalla Commissione”. “Perplessità – conclude il Garante – suscita anche l’emendamento che ammette le intercettazioni preventive (disposte dall’autorità di pubblica sicurezza nei confronti di meri sospettati), per i reati genericamente commessi on-line o comunque con strumenti informatici. Anche in tal caso l’equilibrio tra protezione dati ed esigenze investigative sembra sbilanciato verso queste ultime, che probabilmente non vengono neppure realmente garantite da strumenti investigativi privi della necessaria selettività”.
LE CRITICHE DI QUINTARELLI
Il deputato di Scelta Civica Stefano Quintarelli, intervistato da Repubblica. it, sostiene: “Così si introduce per la prima volta la possibilità di spiare dentro il computer di ogni singolo cittadino sospettato di qualsiasi reato e non solo di quelli di matrice terroristica”. Tant’è che Quintarelli ha presentato un emendamento per ridurre l’utilizzo dei software spia solo per questioni di terrorismo, ma al momento è stato accantonato. Entrando nel dettaglio, spiega il parlamentare in un post su Tumblr, con queste misure contestate “l’Italia diventa, per quanto a me noto, il primo Paese europeo che rende esplicitamente ed in via generalizzata legale e autorizzato la “remote computer searches“ e l’utilizzo di captatori occulti da parte dello Stato” (Trojan, Keylogger, sniffer, ecc.). L’uso di questi strumenti “è controverso in tutti i Paesi democratici per una ragione tecnica: con quei sistemi compio una delle operazioni più invasive che lo Stato possa fare nei confronti dei cittadini, poiché quella metodologia è contestualmente una ispezione, una perquisizione, una intercettazione di comunicazioni, una acquisizione occulta di documenti e dati anche personali”. “Tutte attività compiute in un luogo, i sistemi informatici privati, che equivalgono al domicilio. E tutte quelle attività vengono fatte al di fuori delle regole e dei limiti dettate per ognuna di esse dal Codice di Procedura Penale“. Con questo, conclude Quintarelli, “non dico che i captatori siano sempre da vietare, ma il loro utilizzo deve esser regolato in modo se possibile ancora più stringente di quello delle intercettazioni: pena la violazione di principi costituzionali oggi più che mai fondamentali“.